AMADA  "Nove piccoli sorsi di mare"
   (2023 )

Verbalizzare le emozioni è la cosa più difficile da fare. A meno che tu non sia un poeta, che sa come dosare le parole, c'è sempre il rischio di cadere nella retorica, o nella stucchevolezza. Eppure questi “Nove piccoli sorsi di mare” sono nove diverse emozioni da vivere.

Amada è il nome d'arte di Annalisa Madonna, e si chiama così il progetto che la vede voce protagonista, voluto dal bassista e compositore Giacomo Pedicini. Qui si torna ad usare senza vergogna la definizione “world music”, perché Pedicini proviene dal gruppo Spaccanapoli, prodotto dalla Real World di Peter Gabriel, che è il principale pensatore della visione world. Quindi, stiano tranquilli i soliti professori dal nervo facile, che siamo nell'ambito dell'intenzione originale di quella definizione, che valorizza le sonorità locali del mondo, in chiave spirituale e universale. Dunque nulla di “coloniale”, commerciale o da compilation “white savior”.

Amada è napoletana e canta in siciliano (catanese), portoghese, spagnolo, francese, capoverdiano, italiano. Tra gli altri strumenti, evidenzio fisarmonica, violoncello, contrabbasso e percussioni tra cui la zabumba, cioè la grancassa “portatile”, che si imbraccia. Tra i generi affrontati, c'è il tango e anche una milonga; non verde come quella di Paolo Conte, ma “inglese” (“Milonga Inglés”).

“Beatriz e o Beijaflor” apre subito l'album commuovendoci, con la stessa forza di Rebekah Del Rio in “Llorando”. Poi però ci trasporta nella gioia di “Minha Sereia”, e nell'ironia di “Cache cache”, che vuol dire “nascondino” in francese. Il flauto e il catanese compaiono in “A festa da morti”.

Sono ben consapevole che non ho scritto praticamente nulla di descrittivo o tecnico, niente che possa darvi suggerimenti precisi, per capire cosa ascolterete. Ma è che perfino con un brano spiritoso come “La mujer de mi mujer”, devo prima asciugarmi gli occhi, e poi tentare di buttar giù qualcosa. Ma meglio non scrivere nulla, perché descrivere le emozioni sarebbe troppo retorico! (Gilberto Ongaro)