RIDEOUT  "Driven to insanity"
   (2023 )

Come spesso succede alle bands, prima di approdare a scrivere inediti, ci si fanno le ossa con pestate di palco e adescamenti di covers, finchè subentra (in divenire) l’anelito di darsi un’identità con brani propri.

La narrativa dei Rideout comincia cinque lustri fa e, man mano che si strutturavano con la line-up definitiva (nel 2009), ecco che il quartetto cuneese ha incamerato nel suo palmares due e.p. e due albums, compreso il nuovo “Driven to insanity”.

La griffe hard-metal può sembrare niente di nuovo sul fronte occidentale ma, analizzando attentamente i 10 brani in cascina, si scorge il forte impatto individuale che i Nostri vogliono imprimere alla passerella: e, francamente, se non fosse cosi, non si riuscirebbe a catturare più di tanto l’orecchio esperto di chi mastica il genere.

Esplodono già in entrata con grande vena esecutiva con “Bed time story” e, sebbene alzino il piede dell’acceleratore con “Hunger” e “Savior”, la voce di Valeria Aina torna a mordere con gusto martellante in “Cross & Virus”, mentre le chitarre alzano bene la cresta nelle ruggenti “Akhenaton (Horizon of God)” ed “Empty”: altro che “vuoto”, qui vige ricchezza energica che cola come resina appiccicaticcia!

Non c’è né respiro né tregua neanche a pagarla oro: ognuno si salvi come può con gli impatti sismici di “A perfect life” e “Freak of nature”, o al cospetto dell’apparizione dell’uomo nero, cosi efferato che (appunto) “Man in black” non ha la minima intenzione di mollare la presa nemmeno ai saluti.

Tra attualità e disturbi introspettivi, anche “Driven to insanity” è figlio di madre-lockdown, e la rabbia che trasuda dagli spartiti è talmente vistosa e plateale che conferma l’enorme potenziale dei Rideout, sempre vigili a stare sul pezzo di una “insanità” autoriale che non fa sconti a nessuno. Grande prova, se non altro per il coraggio di procedere a testa bassa, con idee chiare, autoritarie e distorte quanto basta. (Max Casali)