STEVE MANFROI  "La tazza delle parole"
   (2023 )

Trombe mariachi aprono il nuovo album di Steve Manfroi, sorprendente realtà cantautorale italiana. Un talento sicuramente inserito in una generazione di artisti italiani che han saputo seguire una loro intuizione e che tuttora sanno prescindere da generi prefissati, trovando puntualmente linguaggi sonori adatti per accompagnare magnificamente le loro parole. Gli amici inglesi possono star tranquilli: questo non fa parte del loro DNA.

In questo album l’esperienza di uno come Giovanni Ferrario dietro la consolle, ne ha facilitato la costruzione, esaltandone il sapore introspettivo e nebuloso. Ma forse è solo inquietudine. Quella di Ferrario è una produzione che ha saputo comunque dire la sua, forte di passati confronti con gente come P.J.Harvey o John Parish.

In ‘La Tazza Delle Parole’, la musica riporta chi si approccia verso un periodo d’oro del rock italiano, quando cioè molte forze artistiche italiane degli anni ’90 sapevano mostrare idee e spesso anche i muscoli, contrapponendosi a chi si accontentava dell’ovvio, meglio se di marca straniera. Un movimento dal sapore straordinario e indipendente. Ad un certo punto, per motivi non difficili da cercare, la parola “indie” si è svuotata della sua anima, tramutandosi lentamente in un termine innoquo, definente un genere e non più un’attitudine.

Steve Manfroi non è propriamente detto “un giovane di buone speranze”. Il suo curriculum parla da solo: studi importanti al conservatorio G.Verdi e al CTA di Milano, frequentando anche corsi presso il Teatro Officina, sempre a Milano. Dal 1986 è tutto un lavorare tra progetti ibridi, tra teatro e musica (spesso assieme alla sorella Michela, già con gli Scisma), fino a quest’anno, che vede pubblicato questo suo primo album.

Lo stile di Steve, mi ricorda ancora una volta storie meravigliose cantate da Paolo Benvegnù o Giulio Casale, fatalmente tutti figli di uno stesso disagio, ma al contempo inclini a intravedere nel grande paesaggio della Poesia, un posto dove collocarsi cercando parole appropriate in nome di una generazione falsamente apatica. Potrebbe essere intuibile anche una certa propensione verso la formula del teatro canzone. Ciò non solo per l’interesse per il teatro percepibile dal curriculum, ma pensando piuttosto ad una forte sensibilità, che traspare dalle liriche di queste magnifiche canzoni.

Forse non tutto è perso. (Mauro Furlan)