SABRINA NAPOLEONE  "Cristalli sognanti"
   (2023 )

Ascoltare artisti come Sabrina Napoleone, Ottodix, Emiliano Mazzoni, Alessandro Fiori, Roberta Giallo, Fabrizio Tavernelli, Mario Pigozzo Favero, dovrebbe condurre ad una istintiva contentezza, nel segno del c’è ancora speranza. Speranza di poter godere di una musica cui sia sotteso un lavoro più intelligente dei gingilli della produzione; una musica capace di creare, scavare nel profondo, analizzare, sviscerare da punti di osservazione diversi da quelli comuni, librandosi ben al di sopra di chi guida a fari spenti o di chi latra con l’abituale vacuità. Per carità, va bene in spiaggia con la fetta d’anguria, ma c’è molto di più.

“Cristalli sognanti” è il terzo album solista di Sabrina Napoleone, cantautrice genovese disallineata e complessa, con una laurea in Filosofia, uno sguardo di sbieco sulle cose della vita ed un percorso di lunga data, variegato e sfaccettato, costellato di soddisfazioni e meriti acquisiti.

Penna elegante e dotta, eppure alla ricerca di una inusuale immediatezza, dispensa a piene mani contenuti elaborati, amalgamati ad una fruibilità mai scontata. In equilibrio fascinosamente cangiante tra il taglio scopertamente colto dei testi e spinte musicali indirizzate verso un’elettronica a tratti algida, altrove più oscura, mantiene elevato il livello della conversazione mentre ricama geometrie infide: spicca, emblematico, il singolo “Gardur”, brano avulso dalla tradizionale forma-canzone che ripete ciclicamente per due minuti gli stessi versi in un singalong infinito, su un’aria melodiosa inghiottita dal violino. Ma brillano anche la delicata alchimia à la Giuni Russo di “Stupidi disperati” (a due voci con Cristina Nico), il suadente refrain di “Palazzo”, il basso imperioso e la pregevole costruzione di “Come 7/4”, l’eco vagamente deandreiana di “La visione dell’occhio di Dio”, l’afflato sperimentale di “Malattia invettiva”, ma soprattutto l’acuta riflessione sul tradimento che è “Critone”, battito à la St. Vincent sul quale si staglia maestoso un testo tanto impossibile quanto intrigante, memore di certe oblique digressioni di Franco Battiato.

In chiusura, gli otto minuti strumentali di “Mevidda”, pura raffinatezza tra elettronica, ambient e pulsioni avant, suggeriscono – muti, ma eloquenti - come una musica così sia possibile: arte preziosa capace di insinuarsi con classe fra le strette maglie dell’abissale banalità che gira intorno, quella che non ha futuro, o che forse ne ha fin troppo. (Manuel Maverna)