CRIME & THE CITY SOLUTION  "The killer"
   (2023 )

Alla fine, Simon Bonney non è cambiato affatto. O almeno ci sta provando, a non mollare.

Certo, il suo crooning così peculiare e sovraesposto è oggi meno espressionista ed istrionico rispetto alla golden age, ma lo sguardo rimane tagliente, la lama è ancora affilata come al principio delle sue molte vite ed incarnazioni.

A dieci anni dall’inattesa rentrée del 2013, che interruppe a sua volta uno iato durato ben ventitré anni, “The killer”, su etichetta Mute, segna il nuovo ritorno della storica sigla Crime & The City Solution, band australiana che visse una stagione memorabile nella seconda metà degli anni Ottanta; forte di un approccio cupo, aspro, fosco, sì viscerale, ma affatto diretto né immediato, riuscì nell’impresa di forgiare un suono ed un linguaggio che le permise di affrancarsi sempre più dal sound degli esordi, uscendo dall’ombra lunga ed incombente dei Birthday Party (dalle cui fila Rowland Howard e Mick Harvey provenivano). La personalità c’era, ed era strabordante; il repertorio era solido, la direzione artistica ben individuata, nel nome di una rilettura stravolta e distorta del caro vecchio blues, da cui tutto nasce.

Persi lungo la via i compagni di viaggio degli albori, Crime & The City Solution sono oggi una formazione di sette elementi (arricchita dal recente ingresso del chitarrista Joshua Murphy), che vede come soli membri di vecchia data, oltre allo stesso Bonney, il chitarrista Alexander Hacke (Einstürzende Neubauten) e la violinista Bronwyn Adams, nucleo attorno al quale, a partire dal 2013, si è consolidata la line-up che diede vita ad “American Twilight”. Fortemente influenzato dall’esperienza lavorativa di Bonney nel campo degli aiuti umanitari nell’area indo-pacifica, l’album riflette con amarezza e disincanto su scenari di quotidiana, ordinaria violenza e sulla resilienza dell’essere umano nei confronti del clima di dilagante incertezza che a comun danno impera.

Con voce segnata dal tempo ed un’inflessione a tratti compassata, Bonney dispensa la sua filosofia in sette brani bui e minacciosi, concedendo tuttavia varie aperture a trame più accomodanti rispetto al passato; lasciate definitivamente alle spalle sia le asperità visionarie e psych della prima, lontanissima parte di carriera, sia la frenesia incattivita del primo ritorno (qualche oncia della quale sopravvive nel tetro rallentamento di “River of God”), i brani si accoccolano su un sound sempre plumbeo ed inquieto, ma figlio di un songwriting più lineare, largamente incentrato sul contenuto suggerito dai testi.

“Rivers of blood” esordisce su un’aria afflitta à la Roy Orbison; “Hurt you, hurt me” ricorda le tessiture dei Morphine, mentre “Brave Hearted Woman” aggiunge inserti di elettronica in una partitura ondivaga che accosta Cohen e Smashing Pumpkins. Stridente il contrasto tra i quasi nove minuti – tesissimi, malsani – della title-track, che arranca tra il Dylan di “It’s alright Ma” e l’intimismo sciamanico di Davide Eugene Edwards (anch’egli membro della band) e l’introversa dolcezza di “Witness”, slow guidato dal violino della Adams a passo lento, con le movenze felpate di Mary Gauthier.

In coda, resta solo il tempo per la marcia al rallentatore di “Peace in my time”, dolente chiusa in minore per note sgranate di pianoforte e archi straziati, sospesa e dimessa, desolata e così profondamente triste, forse il solo finale possibile per un lavoro che gronda sentimenti oscuri e contrastanti: rabbia, avvilimento, un’ombra di rassegnato fatalismo. Ci prova, Bonney, a graffiare ancora, ma il tempo è crudele, le cose vanno male, soffia una brutta aria. (Manuel Maverna)