KLOTZS  "Sucht"
   (2023 )

Quando a dicembre sembrano scemare le chance di imbattersi in qualche gran disco, perché quello che doveva uscire è già uscito, i nomi grossi pubblicano in primavera o in autunno, chi vuol esser lieto sia, amen, ecco, può capitare invece di pescare il jolly che non ti aspetti, quando meno te lo aspetti, da parte di chi non ti aspetti.

In barba alla confortante atmosfera natalizia, alla faccia (bella) di Michael Bublè, di Mariah Carey e del mai dimenticato Bing Crosby, venghino dunque damen und herren a Siegen, Germania, alla corte dei Klotzs, gloriosa sigla di nicchia nata in forma di trio un quarto di secolo fa e ridotta oggi ai soli Ingo Frevel e Sascha Pech, uniti e inossidabili nel più classico dei power duo voce/chitarra e batteria.

Quinto album in una defilata, incrollabile carriera iniziata nel secolo scorso, “Sucht” (uscito per Major Label) è opera monumentale, ed il bello è che ottantuno minuti e diciotto brani riescono nell’impresa di sorprendere senza mai tediare, conservando intatti all’abbrivio di ogni pezzo aspettative ed interesse. Le coordinate: post-punk (evviva!) veemente, ma non sempre e non troppo, con concessioni affatto sporadiche ad arie più morbide, non prive di una vena melodica chiaramente individuabile sotto la spessa coltre di basse frequenze, elettricità dispettosa, ritmo incalzante (“Kalender”).

Album imprevedibile e compatto, alterna con la più disinvolta nonchalance un brusco garage-rock à la Stooges (“Tristess”, “Filibuster”) ed una inattesa eco beatlesiana (“Helden der Bedeugtungslosigkeit”), mischiando buie trame cadenzate memori della dark-wave che fu (“Sand”, “Erwachen”, “Tagträumer”), boogie infidi (“Generalprobe, Kleiner Saal”), derive sottilmente psych (“Phantom”), bordate micidiali figlie del punk più inacidito (il singolo “Lokalpatriot”, la cavalcata frenetica di “Zeitzünder”, la tirata devastante di “In der Drachenstadt”), perfino incursioni temerarie in territori jazz (“Geist”).

In coda, l’accoppiata desolata di “Am morgen” e “Lebe Wohl” chiude in bilico tra languore e melanconia, mirabile suggello ad un album di rara intensità, vario e cangiante, schizoide nel suo insistito fluire ondivago, ricco fin quasi all’opulenza, teso e drammatico, dritto come una spada eppure godibilissimo.

Gran disco, nonostante sia dicembre. (Manuel Maverna)