CARLO MOLINARI  "Prove per non affogare"
   (2024 )

“Sono prove per non affogare più”, recita proprio alla fine dell’album la title track “Prove per non affogare” di Carlo Molinari, cantautore romano che di professione fa anche il medico chirurgo.

I brani del disco – uscito lo scorso autunno e presentato in concerto live all’Off/Off Theatre di Roma il 6 febbraio 2024 – vogliono probabilmente offrire al pubblico dei momenti di riflessione sui problemi dell’esistenza individuale e della società presente, ai fini di un migliore adattamento… “per non affogare”, appunto.

L’idea dell’adattamento e della resilienza è abbastanza esplicita nel ritornello della canzone intitolata “Patagonia” (chissà in base a quali caratteristiche è stata scelta proprio la Patagonia e non un altro posto del mondo?): “Imparerò a nuotare o ad affogare meglio di così”, dice il ritornello, ricordando l’espressione inglese “sink or swim”, che praticamente chiede all’individuo di cavarsela da solo, senza alcun aiuto da parte dello stato o della collettività. Non è detto però che Molinari si sia rassegnato a questo modo d’intendere la vita; anzi, il suo atteggiamento artistico potrebbe essere ironico, di lotta contro tale resilienza.

Sempre nel ritornello di “Patagonia”, l’autore propone una “soluzione” che non sembra proprio educativa: “Portami via da questa stanza [...] in un bicchiere di Amarone o di Chablis”. Visto il forte impatto che la musica ha sull’emotività, potendo in un certo senso influenzare le scelte che una persona fa nella vita, una frase del genere espressa senza velo in una canzone potrebbe essere poco cauta nei confronti delle giovani generazioni e non solo. Ma di nuovo, non è detto che Molinari approvi l’alcool come via di fuga dai problemi e che la sua non sia una forma d’ironia.

Musicalmente “Patagonia” è un brano ben realizzato, nel quale si sente – come in tutti gli altri brani di Carlo Molinari – l’influenza dei grandi cantautori romani, soprattutto quella di Francesco De Gregori. La sua formazione artistica presso il Folk Studio di Trastevere ha dato frutti.

Anche nella canzone “Le donne di Kabul” possiamo sentire degli arrangiamenti musicali raffinati e di alta qualità. Oltre alla chitarra classica suonata da Carlo Molinari, al basso e al pianoforte, è presente un intermezzo originale di fisarmonica eseguito dal tastierista Edoardo Petretti, che sorprende soprattutto per il passaggio improvviso, per un solo attimo verso la fine della canzone, dalla tonalità maggiore alla tonalità minore armonica tipica della musica orientale. Come si evince dal titolo, il testo della canzone “Le donne di Kabul” vuole essere un omaggio alle vittime femminili del regime talebano dell’Afghanistan. Ma le metafore utilizzate non sembrano le più adatte per innalzare la donna sul piedistallo che si merita, a prescindere dalla zona geografica e dal contesto socio-politico di provenienza.

Le donne di Kabul vengono, per esempio, paragonate a delle “lucciole sulla strada” e, com’è ben noto, “lucciola” è un eufemismo di solito usato per indicare le prostitute. È interessante il fatto che, fra i brani scritti da vari cantautori a cavallo tra il 2023 e il 2024, questo non sia il primo in cui la metafora “lucciole” si riferisce alle donne in generale e non particolarmente a coloro che praticano il sesso a pagamento. Pure altre metafore presenti nella canzone “Le donne di Kabul” sembrano poco lusinghiere nei confronti delle sue protagoniste: “margini non definiti”, “lumache senza casa”, “pasti da saltare, prima che li divori qualcuno”, “macchine senza freni”, “cani feriti che ridono se li chiami amore”… Speriamo che l’autore abbia usato queste metafore per descrivere il modo nel quale, secondo lui, gli uomini talebani percepiscono le donne e che l’allusione ai talebani non sia invece un pretesto (anche inconsapevole) per esprimere il proprio atteggiamento verso il genere femminile.

Il tempo che passa e che lo fa sentire – come lui stesso afferma nella canzone “Patagonia” – “un po’ fuori servizio” induce l’autore ad avere dei pensieri esistenziali malinconici, espressi in “Una canzone nuova” (la cui protagonista sembra essere la nostalgia dell’età infantile), in “Come fanno i sogni” (nella quale, con un accompagnamento strumentale simile alle colonne sonore dei film degli anni ‘70, viene forse evocata l’amarezza di un amore troppo fugace: “tu, che l’hai incontrata dopo un secolo, ti sei girato ed è andata via”…) e in “La valigia” (canzone ispirata al perenne e insensato spostamento a cui la vita ci costringe). Relativamente a quest’ultima, c’è da notare l’elegante accompagnamento di pianoforte, chitarra e fisarmonica, e c’è da precisare che nel ritornello “Che sogni e che speranze hai, concrete o stupide?”, la congiunzione “o” è probabilmente poco idonea tra gli aggettivi “concrete” e “stupide”, in quanto i due non si escludono a vicenda: si possono avere speranze concrete e stupide, così come si possono avere speranze astratte e intelligenti.

In “Come fanno i sogni”, invece, a livello linguistico è doveroso segnalare un mancato accordo di genere fra il nome e il corrispondente pronome personale complemento: “È la VITA che è una follia e ti racconta quello che GLI pare”. L’album include anche due brani dall’anima leggermente rock e di protesta sociale, in cui possiamo sentire delle parti di chitarra elettrica (Moreno Viglione) e di basso (Luca Pirozzi) abbastanza audaci: “Si fa molta fatica” e “Uomini e topi”. “Si fa molta fatica” esprime la disapprovazione dell’autore verso coloro che senza torto reputa responsabili delle guerre e della povertà nel mondo. È forse, dell’intero album, il brano più coerente e più robusto dal punto di vista poetico. Si distinguono soprattutto i versi: “Sono sfide del ca**o, sempre contro di noi”; “La ruota non gira, o meglio, gira sempre dalla stessa parte”; “Per loro non c’è nessun dio”; “I problemi di tutta la gente non li sfiorano neanche lontanamente”...

“Uomini e topi” è un brano misterioso che apre all’approfondimento culturale, in quanto il titolo e forse anche le allusioni poetiche presenti nel testo ricordano l’omonimo romanzo scritto da John Steinbeck nel 1937 e ispirato, a sua volta, da una poesia dello scrittore scozzese settecentesco Robert Burns. Sia il romanzo di Steinbeck, che la poesia di Burns sembrano mettere al centro il cattivo esito dei piani architettati dagli uomini e dai topi, che contraddice la gioia promessa inizialmente; forse una specie di “eterogenesi dei fini”, come direbbe Wundt... Infatti, nel testo di Molinari ad un certo punto si afferma che i topi/gli uomini “mettono i sogni nel cielo e poi li strappano via, senza una ragione, senza fantasia”.

Una canzone particolare, forse non casualmente situata proprio in mezzo alla tracklist (il quinto dei nove brani dell’album), è “Fino alla fine dell’amore”. Già dal titolo si può capire che si tratta di una traduzione in italiano del famoso brano di Leonard Cohen, “Dance me to the end of love”, scritto dall’autore canadese come risposta al dolore provocato da ciò che gli era stato riferito riguardo all’orrore dei campi di concentramento nazisti… l’amore che vince sulla morte, dalla quale molto diverso non è (visto che alla persona amata ci si abbandona come nel momento della morte). Piuttosto che una traduzione di “Dance me to the end of love”, la versione proposta da Molinari ne è una rilettura, poiché viene cambiato il ritmo rispetto all’originale e alcune parti del testo poetico vengono modificate sostanzialmente.

Per esempio, nell’espressione inglese “dance me”, il verbo “dance” ha un valore transitivo, come per dire “fammi ballare”, mentre nella canzone di Molinari viene tradotto “ballami”, cioè “balla per me”, come se soltanto la donna ballasse mentre l’uomo la guarda senza farsi coinvolgere nella danza. Il verso “Dance me through the panic ‘til I’m gathered safely in” (che fa sentire come nell’atto d’amore il panico si risolve in una sensazione di sicurezza) diventa “Balla la certezza che non possa farmi male”, perdendo in qualche modo la sua essenza originaria. Nel verso “Raise a tent of shelter now though every thread is torn” (“Alza ora una tenda di riparo, anche se ogni filo è strappato”), molto probabilmente si fa riferimento alla “chuppà”, tenda in cui si celebra il matrimonio ebraico secondo l’antica tradizione e che purtroppo viene strappata dalla malvagità delle persecuzioni razziali e del mondo moderno in generale… mentre nella versione del Molinari il discorso diventa “Tira su una tenda per proteggerci dal sol”, come se si trattasse di una semplice tenda da sole.

“Dance me to the children who are asking to be born” (“Fammi ballare verso i figli che chiedono di essere messi al mondo”) si riferisce a un’importante, anche se non l’unica, finalità del matrimonio: la procreazione. Ebbene, questo bellissimo verso viene reinterpretato dal cantautore romano con le parole “Portami dai figli che non sono nati mai”, come se un eventuale concepimento fosse escluso a priori... Ma anche in questo caso, come nel caso del “nuotare o affogare” o dell’alcool visto come soluzione ai problemi, si potrebbe trattare di una sottile ironia utilizzata da Molinari per richiamare l’attenzione verso i rispettivi problemi della società e per farci riflettere.

Tutto sommato un disco interessante nel bene e nel male, che offre tanti spunti di pensiero. In fin dei conti, è questo il compito dell’arte. O no…? (Magda Vasilescu)