INSIDE THE HOLE  "The rotten side"
   (2024 )

E’ la fine la più importante, sosteneva Manuel Agnelli.

Magari nella vita sì, ma su disco – dico io - anche l’inizio non scherza: è ciò che ho pensato mentre venivo amabilmente travolto dalla bordata rabbiosa, cattivella e indispettita, di “Straight to Hell”, cocktail di benvenuto decisamente gustoso, dichiarazione di intenti esplicita fin dal titolo, con chitarra pesante, riff grosso à la White Stripes, canto arrochito, ritmica martellante e - udite udite – anche un sax che non ti aspetti.

Ecco: volete mettere l’inizio di un disco? L’opener, come la chiamano quelli bravi, o l’incipit, l’abbrivio, l’apertura, vedete voi: segna il cammino, getta le basi, forma quell’impressione che può influire sull’ardua scelta tra desistere o perseverare.

Opener a parte, pure il resto di questo appassionato e ruvido “The Rotten Side” – sempre a proposito di titoli e dichiarazioni di intenti – si mantiene spavaldamente all’altezza delle promesse, ripresentando il trio siciliano Inside The Hole (Roy Zappia, Francesco Less, Giulio Di Martino) in forma smagliante, a dieci anni esatti da “Impressions”, debutto tostissimo, forse acerbo ma sinceramente genuino, fucina di un torrido hard-blues, qui rimasticato e riproposto con sopraggiunta maturità.

L’intero album è un assalto caparbio ed impetuoso, che sa sì colpire con furia cieca come in passato (“Rotten Side Of Your Mind”, “Not Falling Down”), ma che sa anche manipolare la materia, concedendosi strappi al canone ed infrazioni al regolamento: è vero, “A Man Called Chicken” è una mitragliata in zona Motörhead e “A Strange Lie Called Life” ha movenze à la AC/DC, ma le gradite novità risiedono altrove. Ad esempio, nella progressione elaborata di “Shamanika”, nel blues sudista – impreziosito dal sax e da un’allettante slide - di “Moonlight Riders”, nelle inflessioni alt-country della conclusiva “All I Know”, con tanto di cadenza battente ed incedere ossessivo, quasi al confine con le più oscure trame di Ryan Bingham.

Ventiquattro minuti per otto brani essenziali e urgenti, eseguiti con personalità, attitudine e la giusta aggressività da una band centrata e solida, padrona della primitiva veemenza che ne definisce l’identità. (Manuel Maverna)