GIULIA MEI  "Io della musica non ci ho capito niente"
   (2025 )

Bravi, bravi, clap clap, applaudite pure, che poi è sempre meglio di niente.

Li sento da qui, i vostri convinti battimani, e i peana, e le lodi sperticate, e i sottili distinguo, e le analisi metatestuali e i riferimenti al contesto e la rilevanza sociale e la profondità del messaggio.

Bravi, bravi, ma adesso ditemi: dov’eravate nel 2019, quando la signorina Giulia Catuogno, in arte Giulia Mei, allora ventiseienne di belle speranze, debuttava sulla lunga distanza anni luce prima della vetrina patinata di X-Factor, recando in dote quel gioiellino luccicante di “Diventeremo adulti”, una piccola meraviglia di songwriting frizzante e intelligente, accattivante ed attraente sì, ma in un modo sincero, mai affettato, non forzato né ammiccante?

Ve lo dico io: dormivate, ed intanto qui, nell’orticello di Music Map, webzine libera & bella, quella stessa penna che - hic et nunc - vi sta interrogando, vergava sulla pietra online una recensione sentita ed accorata, dichiarando amore virtuale ad una ragazza troppo talentuosa per fermarsi lì. Quella stessa penna che oggi gioisce sia nel realizzare che aveva ragione, sia – soprattutto - nel vedere quanta strada stia percorrendo una ex-ragazza palermitana, che di gavetta old style ne ha vissuta eccome e che finalmente – meglio tardi che mai, perché non era affatto scontato che accadesse - ha fatto il botto, grazie ad una canzone sfacciata e schietta, prepotente e diretta, sberla e sberleffo nel carrozzone di Sky, forse fuori script per uno show for the masses, dal quale – non a caso – è stata rapidamente congedata, con scarsa lungimiranza.

Ecco, a sei anni da una perla che vale la pena riscoprire, arriva ora su etichetta Sound To Be “Io della musica non ci ho capito niente”, dodici tracce per quarantuno minuti, creativi quanto basta ad accendere seriamente i riflettori su quella che potrebbe essere una nuova via al cantautorato, perché cantautrice sui generis Giulia è.

E ben poco importa che non sia chiarissima – almeno a me, che me ne infischio altamente – la direzione nella quale l’album voglia spingersi: qua dentro c’è un hellzapoppin’ fatto di tracce strumentali, vivaci suggestioni elettroniche, canzone popolare, trucchetti ed improvvisate, magheggi vari, featuring intriganti ed un flow a tratti irresistibile.

Avanti, dunque, con la botta del synth, entri l’immarcescibile unz-unz, e cinque secondi più tardi prenda pure il largo un’armonia memore di Bach, con svolazzi di tasti bianchi e neri come arabeschi e ricami preziosi; ben venga Rodrigo D’Erasmo nella doppia title-track che apre e chiude l’album in sette minuti e mezzo di vaudeville 2.0, beat sinfonico pasticciato spezzato ricomposto; si accomodi al fastoso banchetto la deliziosa Anna Castiglia (anche lei prematuramente esclusa dal solito talent), impegnata qui nel pop sontuoso, elegante e non banale di “Un tu scuiddari”, con annesso ritornello-killer da mandare a memoria e più o meno quattro linee melodiche ad intrecciarsi come niente fosse.

Della suddetta direzione – sia chiaro – pare disinteressarsi altamente Giulia stessa, che pennella indifferentemente il beat storto e sovraesposto di “MOZRAT”, la toccante lullaby in idioma siculo di “A picciridda mia”, la malinconia sottile e pacificata di “Mio padre che non esiste”, il piccato risentimento di “Drammaturgia” e l’amaro bozzetto di “H&M”, altro refrain epico ad illustrare una condizione sociale così frustrata, così abbattuta, così mestamente contemporanea.

La cosa che mi fa impazzire di Giulia Mei è la nonchalance con la quale riesce ad alternare – e a mischiare – techno, melodie in minore, fughe di pianoforte, dialetto, parolacce calibrate e versi alti. Ha cose da dire, merce rarissima aujourd'hui, galleggia a distanza siderale dal milionesimo cuore/amore o dall’insulso, scipito bla-bla à la ho visto lei che bacia lui che bacia quell’altro. Hanno più contenuti le due strofe di “Bandiera” che le nenie smielate di certi tizi riempi-stadio, più significati i tre minuti de “La vita è brutta” – ennesimo singalong da esposizione – che il prossimo raglio da classifica di colleghi assai più blasonati ed assai meno ispirati.

Ecco, quello che mi piace di lei è l’idea: quella di una musica imbastardita e contaminata nei suoni, acuta e penetrante nei testi, ricca senza ostentarlo, eppure così fruibile, disponibile, appetibile a più livelli.

Chiudo con le stesse parole della recensione di sei anni fa, perché comunque vanno ancora benissimo: il potenziale è enorme, le possibilità infinite. A bientôt, ragazza.

Clap clap, di cuore. (Manuel Maverna)