MOTHER TONGUE  "Mother Tongue"
   (2025 )

Un senegalese, un olandese e un portoricano entrano in un bar. Il barista è greco e loro cercano di farsi capire spiccicando qualche termine ellenico, ma il barista chiede loro: “Parlatemi nella vostra lingua madre, forse è meglio”.

Parlano tutti contemporaneamente ed esce una specie di esperanto ancora più incomprensibile, finché optano tutti per l'inglese: “Three beers”.

Questa è una barzelletta che fa poco ridere, ma è molto interessante che un trio di musicisti provenienti da tre nazioni fra loro distanti, sia geograficamente che culturalmente, abbiano scelto di chiamarsi “Mother Tongue”. Quale madrelingua?

Nelle canzoni di questo album (uscito per Makkum Records/De Platenbakkerij/Astral Spirits) la lingua dei testi è wolof perché canta Mola Sylla, un griot del Senegal. Il griot è una figura importante nell'Africa Occidentale, affine al nostro bardo, che si fa portavoce della cultura orale. Ma la lingua in comune con gli altri due musicisti è senz'altro la musica.

Frank Rosaly è il batterista portoricano, che dal 2001 fa parte della scena di Chicago, mentre Oscar Jan Hoogland è un tastierista di Amsterdam che per l'occasione ha elettrificato un clavicordo settecentesco.

La musica dei Mother Tongue fonde tutto questo in un linguaggio sonoro fortemente ritmico. Accanto alla batteria e alla tastiera compaiono la mbira, che è fatta di lamelle di metallo premute con le dita, lo xalam, cordofono tipico dei griot, e altre percussioni casalinghe.

In “Djangaloma dara”, sopra un tappeto di mbira e batteria, Sylla canta con stile declamativo; anche se non so tradurre, intuisco che stia raccontando una storia. Quando arriva un suono elettrico, faccio fatica a distinguere lo strumento, per poi rendermi conto che sorprendentemente è il clavicordo!

Non so però poi riconoscere tutto: in “Duk kawe”, quel suono elettrico glissa, e a meno che Hoogland non abbia applicato un pitch elettronico allo strumento, normalmente non potrebbe essere il clavicordo, dato che come il clavicembalo e il pianoforte si suona corda per corda con dei martelletti, non si può fare “slide”.

Lasciamo perdere il riconoscimento degli strumenti e lanciamoci dentro. “É nah” è un brano delicato, dove la voce segue una scala maggiore conciliante. Al contrario, “Ndap” è tumultuoso, e la voce si ingrossa, con approccio teatrale e carisma d'attore.

L'album è chiuso da “Kaing”, una scalata di 13 minuti dove un suono acido (come fosse il basso di Wolstenholme nei Muse) ci ossessiona nella prima metà. Un suono di fiato improvvisa in maniera vorticosa, mentre... un cane abbaia. Non so perché, ma c'è un cane che abbaia!

Dopodiché, nella seconda parte del brano, torna la voce di Mola Sylla, con un graffiato e delle note prolungate che fanno venire i brividi, e il disco si chiude con la sua sola voce.

L'esito è ipnotico e affascinante. Anche se non conosci la lingua, la particolare situazione musicale che si crea da questa commistione comunica benissimo con il linguaggio musicale. Perché nonostante le differenze stilistiche e teoriche da continente a continente, la musica resta la più diffusa madrelingua nel mondo. (Gilberto Ongaro)