THE STOOGES  "The weirdness"
   (2007 )

Facciamo subito una premessa; questo potrebbe essere considerato come un discreto disco rock, ovvero la più grande delusione degli ultimi anni. Perché? Perché è il primo disco degli Stooges dal 1973, da quel “Raw power” che chiuse (temporaneamente) l’attività di una di quelle band che, a ragione, possono dire di avere cambiato la musica. “The Stooges” e “Fun house”, primi due imprescindibili capitoli discografici del gruppo di Detroit, hanno rappresentato una bomba nel panorama musicale (anche un filo perbenista) di allora, un veleno che, ancora oggi, è capace di fare male. Dischi, pertanto, che non sono stati capaci di invecchiare, ed ogni loro ascolto ci riporta al suono della miglior rock band del pianeta. Il problema, però, è se il 1973 è uguale al 2007. Ecco, allora, che ritorna il dilemma iniziale: delusione o grande ritorno? Ripresa dell’ispirazione comune di Iggy Pop e dei fratelli Asheton, o solo un’attenta mossa commerciale? Come dicono i saggi, la verità sta nel mezzo (così non sbaglia nessuno, insomma) e chiudiamo il conflitto posto in apertura, rimarcando, tuttavia, che l’attuale “The weirdness” non può nemmeno lustrare i piedi ai suoi nobili predecessori (i primi due soprattutto). E, quindi, un consiglio a chi si era innamorato della musica Stooges degli anni d’oro: state alla larga da “The weirdness”, qui non c’è quello che state cercando. Ma, allora cosa rimane? Rimane un onesto disco rock eseguito da chi il rock l’ha costruito. Invero, il lavoro parte bene. Una copertina essenzialissima che, in uno sfondo nero, mette in evidenza il nome del gruppo ed il titolo dell’album. Tutto qui. Ma, quando si parla di band del genere, una grafica così basta e avanza. Insomma, niente fronzoli ed immagini furbette, qui non sono necessarie. Parte allora (se guardiamo la copertina) il black album degli Stooges. “Trollin” e “ATM” sono, almeno un po’, come vorremmo fossero gli Stooges oggi; riff di chitarra sufficientemente cattivi, una batteria grezza, molto garage, e per il resto ci pensa Iggy Pop. Con “You can’t have friends” e “Free and Freaky” si scende di tono e, se non si rischiasse la bestemmia, potremmo dire che gli Stooges hanno ascoltato troppa musica finto ribelle degli ultimi anni, dai Green Day, ai Good Charlotte, a chissà chi. Con “Idea of fun” gli Stooges proseguono l’idea di divertimento costruita nella “Fun House” degli anni ’70. Quello che più manca, però, è proprio il cantato dell’Iguana che non sembra adeguatamente sostenere gli strumenti degli Asheton: poco senso di ribellione per Mr.Stooge, che sembra quasi svolgere (bene, peraltro) il compito assegnatogli. C’è anche spazio per un probabile nuovo hit. Non è difficile immaginare i fan del gruppo cantare a squarciagola “The end of christianity” nelle future e sicuramente avvincenti prove live. Un pizzico di novità ed originalità nella storia di confine di “Mexican guy” e, sul finire, il classico sound Stooges di “I’m fried”; classico ma piacevole, sporco e selvaggio, irriverente e maleducato. Ripetiamolo: questo è un onesto disco rock. Un disco rock eseguito da tre mostri sacri (senza dimenticare Steve MacKay al sassofono, già collaboratore della band ai tempi di "Fun House"). Però, è solo un disco rock… ed un’attesa lunga trentaquattro anni non può, a conclusione dell’ultima traccia, non lasciare un po’ di amaro in bocca. Sono ancora gli Stooges, ma possiamo dire che hanno vinto ai punti e non con un formidabile knock out. (Gianmario Mattacheo)