MINISTRI  "Tempi bui"
   (2009 )

Sono “Tempi bui” per davvero, e l’atmosfera che traspare dal nuovo album dei Ministri non lascia scampo a spiragli di luce né a barlumi di speranza. Sonorità piene e mai troppo scomposte non si preoccupano di nascondere il sentimento di rassegnazione “attiva” che anima il trio milanese, così come l’illusione di testi semplici ma simbolici sbatte un’espressione contorta in faccia all’ascoltatore. E’ un disco estremamente orecchiabile, che non dimentica però di valorizzare i lati più irriverenti e fulminei del rock puro e semplice di stampo napoleonico, anche se forse difficili da recepire ad un primo ascolto. Niente di speciale l’omonima apertura del disco, troppo pop e melensamente promozionale: l’inizio travolgente incomincia con la seconda canzone “Bevo”, vero e proprio inno generazionale di chi ha tutto e niente da perdere, accompagnato da cori di folla e cybernetiche chitarre distorte. Distensiva fino a far piegare le ginocchia la successiva “Il futuro è una trappola”, un lieve lamento di frustrazione. “La faccia di Briatore” grida una rabbia divertita che non scade negli eccessi ma si insinua nella memoria grazie a un ritornello infinito, forse il migliore del disco. Appare invece un tono sotto la successiva ballata urlatrice “Il bel canto”, una discesa pop leggermente azzardata per lo stile del gruppo, che spiana però la strada al pezzo più adrenalinico e violento dell’album, “La casa brucia”, combinazione di basso e batteria martellanti che lasciano ampio spazio ai picchi di chitarra e voce. Segue “Diritto al tetto”, già cavallo di battaglia del precedente EP “La piazza”, un brano molto energetico e arrabbiato, ma sempre nei contorni di un’ironia non volta alla pura violenza (dei suoni e dei contenuti). Dai toni più soffusi e dolci è invece la stupenda “Berlino 3”, capace di lasciare intatte amarezze e inquietudini. Più malinconica e deprimente la successiva “E se poi si spegne tutto”, ma troppo lenta e senza spina dorsale per essere davvero coinvolgente. Ci si avvia verso la fine con “Vicenza (la voglio anch’io una base a)”, che per gridare rabbia e rifiuto totalizzanti riprende con suoni sconnessi e sobbalzanti la pungente e ironica irriverenza del gruppo. La chiusura è affidata al piccolo capolavoro “Ballata del lavoro interinale”, denuncia leggera e commossa che soffia via le preoccupazioni in una sottile nube di fumo. Da sottolineare infine l’originalità dei brevi intermezzi folkloristici che uniscono le varie tracce, metodo già sperimentato nel debutto “I soldi sono finiti”. Si deve riconoscere che le prorompenti promesse del primo disco siano state pienamente rispettate, mostrando un secondo album più maturo ed elaborato ma con i piedi sempre ben piantati per terra, da parte di un gruppo che sembra più una fucina mai a riposo. Da sostenere. (Federico Pozzoni)