MAX GAZZE'  "Ognuno fa quello che gli pare?"
   (2001 )

Personalmente ritengo che Max Gazzè sia un genio, ma un genio dei poveri. Non un poeta romantico come Baglioni, non un intellettuale come Fossati, non un illuminato come De Andrè nè uno sciamano come Capossela. Un piccolo genio per le masse, ma con un talento enormemente superiore ad altri pur validissimi affabulatori di popolo, certo più noti e glorificati. Max Gazzè ha uno strano pubblico: non un pubblico di nicchia, perchè le sue canzoni non sono abbastanza difficili, non un pubblico vasto, perchè le sue canzoni non sono abbastanza facili. Non ha una gran voce, nè l’immagine che offre di sè invoglia le ragazzine a sposarne la causa; è bruttarello, non più giovane, ha un gran nasone, i baffoni e un cespuglio di capelli così, ha pure un piccolo difetto di pronuncia quando striscia la “s”, ma scrive bella musica. Col fido fratello Francesco – poeta professionista - in veste di co-autore, Max Gazzè propone da quindici anni un pop blandamente avanguardistico che strizza l’occhio alle classifiche senza mai svendere un grammo di talento nè scendere a patti con la banalità che un ruolo di cantante istituzionale porta a volte con sè. Eppure Max non ha mai complicato le cose fino all’eccesso: piuttosto, è rimasto un maestro del trucchetto, un maghetto capace di disseminare canzoni in apparenza innocue e lineari di piccole asperità inattese, ricorrendo ad espedienti semplici per intorbidire le acque. In particolare, ciò che disorienta maggiormente, oltre alla complessità ed alla ricchezza dei testi, è la progressione spesso sbilenca delle armonie; le sequenze di accordi variano continuamente, mentre il canto sembra non spostarsi di una virgola. E' quanto accade, ad esempio, nell’iniziale “Non era previsto”, con la strofa che si arrampica su un tanto irresistibile quanto impervio giro di basso, mantenendo la linea del canto sospesa fino al rilascio di tensione nel ritornello. La ritmica, che non è mai fondamentale se non per delimitare i brani entro mid-tempo squadrati, di rado indulge in esperimenti contribuendo per il minimo sindacale ad edificare una serie di ballate soltanto falsamente accessibili. Ovunque qualche elegante inserto concorre ad impreziosire trame già ricche che svelano poco a poco piccoli misteri e raffinatezze compositive squisite: è il caso della tromba che contrappunta il passo sornione di “Eclissi di periferia”, dello struggente violino che avvicina la conclusiva, vibrante melodia di “In questo anno di non amore” alla musica classica, o ancora della fisarmonica che sostiene l’up-tempo folk (su uno stile Ruggeri-Mirò) di “Il debole fra i due”, cantata in coppia con Paola Turci. Prevale un pop-rock quasi sempre in minore, vivace nelle tirate di “Questo forte silenzio” e “Il motore degli eventi” (in duetto con Carmen Consoli), più profondo e riflessivo nella cadenza felpata di “Niente di nuovo”, prossima alle digressioni intellettual-chic di Paolo Benvegnù, meticcio nel drumming sintetico di “Megabytes”, sinfonico nell’apertura di “Non è più come prima”. Al di là di una certa tendenza all’abuso di parti orchestrali, che rischiano di appesantire in tono melodrammatico brani ai quali un’asciutta incisività non può che giovare, restano canzoni che dispensano caustica ironia e disincantato fatalismo sotto il velo protettivo di una musica fluente ed intrigante. (Manuel Maverna)