SIMPLE MINDS  "New gold dream"
   (1982 )

Esistono dischi che possono tenere il mondo in ostaggio per decenni, decenni e decenni. Perché sono talmente perfetti da concedere a chi li ha fatti di poter vivere in una indulgenza plenaria che fa perdonare tutto quello che è stato il seguito. E' il caso di "New Gold Dream", ed è il caso dei Simple Minds, che da quel giorno in poi hanno cambiato mille direzioni, imbroccandone poche e cestinandone altre (clamoroso il caso del disco rifiutato dalla discografia, "Our secrets are the same", per manifesta in commercialità, una ventina di anni dopo) ma restando sempre nel radar dell'universo musicale perché, tutto sommato, il ricordo di quello che fu ha sempre vinto sulle incertezze del presente. Loro erano in giro già da un po', avevano virato da un blando simil punk delle origini ad una elettronica che richiamava molto i Kraftwerk, poi tutto in un fiato ecco la combinazione perfetta degli ingredienti, per quello che è, di fatto, il manifesto della cosiddetta new wave, concetto vago di un genere da cui poi si sono fatti avanti mondi variegati, fin troppo. Qui c'era rock ma senza che fosse davvero rock, commercialità senza scadere nel banale, elettronica senza eccedere nel sintetico, per suggestioni e calore nella freddezza, freddezza nel calore. E la voce di Jim Kerr che era l'esatto Bignami di quelle dell'epoca, quasi baritonali (pensate a Philip Oakley o Dave Gahan), che tanto bene stavano sui sintetizzatori così di moda. Lento ma non noioso, corale ma non pacchiano, qui dentro c'è tutto. Senza avere deliri di classifiche all'epoca, ma superando la sfida dei tempi come pochi dischi di quei primi anni '80 siano riusciti a fare. A partire dalla title track, rivitalizzata negli anni '90 con campionamenti dance che mai furono in grado di battere l'originale, o le svariate tracce uscite fuori tra singoli e altro: andatevi a riascoltare "Big Sleep", "Glittering prize" o "Promised you a miracle" per capire di cosa stiamo parlando, ma soprattutto quel gioiellino nascosto, introdotto dalle tastiere di Herbie Hancock, che è "Hunter and the hunted", quasi a fine lavoro. Ingredienti mescolati senza eccedere né difettare di un grammo, nei nove titoli ci si trova tutto quello che si potrebbe chiedere. E, malgrado i tanti giri a vuoto successivi, basta ricordare cosa fu e cosa è "New Gold Dream" per perdonare alle Menti Semplici qualsiasi cosa. Caro raro, se non unico, di sindrome di Stoccolma e di Stendhal messe insieme, perché qui si è vittima di un rapitore che fa comunque innamorare chi ne è stato rapito, perché l'opera d'arte è tale da affascinare in qualsiasi modo e in qualsiasi tempo. Provare per credere. (Enrico Faggiano)