DAMIEN RICE  "9"
   (2006 )

Damien Rice è un drop-out irlandese che ha trascorso parte della propria vita – artistica e non - girando il mondo come busker, portando alla deriva la sua musica armato di una chitarra e poco altro. Autore non certo prolifico nè tantomeno interessato ai ricchi premi e cotillon offerti dallo star-system, ha dato alle stampe due soli album in quasi un decennio, all’insegna di un folk-rock dimesso nei toni ma paradossalmente pomposo (in realtà arricchito in fase di produzione per tentare di renderlo più fruibile) in certe sonorità ed in parte degli arrangiamenti. “9” dispensa a piene mani intimismo da camera (splendido l’opening “9 crimes” cantato a due voci con Lisa Hannigan su un mellifluo giro di piano) e refrain che ben figurerebbero nella sigla di un serial tv per teenager (il chorus di “Rootless tree”), orpelli sinfonici orchestrali (il ritornello di “The animals were gone” uccide una melodia toccante seppellendola sotto una colata d’archi come rischia di fare subito dopo anche “Elephant”) e soprese impronosticabili: mai e poi mai ci si aspetterebbe allora di trovarsi invischiati nel maelstrom distorto in crescendo di “Me, my yoke and I” con la voce di Rice (tra)sfigurata dai filtri e sfracellata contro un muro chitarristico nel caotico ingorgo finale, nè di inciampare nel country disimpegnato di “Coconut skins”. Rice naviga sicuro dei suoi mezzi, lambendo il folk pigro di Will Oldham sia in “Grey room” (con tanto di violoncello) sia nella successiva, struggente “Accidental babies”, dove un pianoforte sofferente accompagna una ciclica cantilena tremula, fino all’elegante – benchè stucchevole - epilogo a due voci di “Sleep don’t weep”, chiusa da quarto d’ora mantrico di campane tibetane. Disco intenso e vissuto, ridondante in alcune scelte sonore, ma intimo e passionale quanto basta per conferire a tracce ben scritte uno spessore ed una godibilità che vanno oltre il manierismo della musica di genere. (Manuel Maverna)