HELMET  "Strap it on"
   (1990 )

Quella inscenata dai primissimi Helmet, band rumorista newyorchese, è la colonna sonora di un martirio. E’ la non-musica di un calvario, un’impenetrabile giungla di distorsioni (quasi sempre in dissonanza) e latrati feroci che creano una sorta di trance derivante dalla saturazione totale dei brani. Sono canzoni brevi (l’intero disco dura mezzora) e monocordi, sequenze sgraziate di suoni fastidiosi e di riff atonali eseguiti a volte controtempo (“Repetition”, “Make room”), mentre l’eccelso John Stanier percuote le pelli donando all’ensemble la sola scintilla di creatività nel caos primigenio che regna sovrano. Le chitarre, sia che suonino per accordi sia che si gettino in assoli dissonanti (“FBLA”), dilaniano il concetto stesso di canzone (un tema, una melodia, una strofa, un ritornello, una storia) con studiata brutalità e cieca efferatezza, in un pandemonio gelidamente omicida che collassa su sé stesso restando confinato all’operazione intellettuale, mentre Page Hamilton rigurgita versi nichilisti con furia maniacale (“Rude”, “Distracted”); la voce è sguaiata e mixata in modo che sembri provenire da un locale piccolo e angusto, la batteria ha un suono secco, come di un fustino di detersivo percosso con violenza aberrante, mentre il basso rimbomba oscuro innalzando oltremodo il livello di disturbo. Il solo, timido accenno di canzone degna di questo nome, si trova in “Sinatra”, dove la struttura asseconda almeno in minima parte l’aspetto formale del brano con un accenno di ritornello ed una sequenza di strofe simile a qualcosa di tradizionale, anche se la reiterazione parossistica della domanda “What’s the best for me?” riporta ben dentro al mattatoio. Rumore come patimento (non certo come catarsi), un frastuono malato che esprime disgusto e rifiuto dei canoni in forma di un insopportabile sferragliare: su insistenti cadenze cingolate in un fragore tellurico ed un registro piatto va in scena la negazione della musica, dell’armonia, di qualsiasi cosa di piacevole possa sovvenirvi, fino allo sbriciolamento della conclusiva "Murder", al capolinea di un tortuoso cammino verso l’ottundimento dei sensi. (Manuel Maverna)