MARK KOZELEK & JIMMY LAVALLE  "Perils from the sea"
   (2013 )

Dalla collaborazione tra due artisti di nicchia, entrambi da lungo tempo votati all’esplorazione dell’animo umano in chiave intimista, nasce questo delizioso side-project che accosta in un emozionante connubio l’intensa liricità di Mark Kozelek (Red House Painters, Sun Kil Moon) - suoi sia la voce che i lunghi testi narrativi - e la tenue musicalità di Jimmy Lavalle (Tristeza, Album Leaf), qui nella doppia veste di compositore ed arrangiatore. Disco garbato ed intenso come si conviene ai suoi autori, “Perils from the sea” pennella pigre melodie che si insinuano sottopelle con grazia sopraffina; su un tappeto di elettronica minimalista steso ad arte da Lavalle, perfetto nell’assecondare il compagno d’avventura con trame essenziali e carezzevoli, Kozelek dispiega tristi ed amare storie di gente comune (emblematico il raggelante biglietto da visita di “What happened to my brother”) con la profonda semplicità che lo caratterizza da vent’anni, disegnando personaggi e situazioni con la vivida abilità descrittiva che costituisce da sempre il suo marchio di fabbrica. L’album, la cui durata si aggira intorno all’ora e venti, raccoglie undici lunghe tracce – cinque minuti la più breve - che sembrano fluire incessanti lungo un continuum che ha come comune denominatore l’umana fragilità, riletta attraverso il prisma della quotidianità: i testi raccontano di morte (“He always felt like dancing”, ma soprattutto “Somehow the wonder of life prevails”, con la presenza aleggiante della musa Katy) e di solitudine - forse il tema più ricorrente nella produzione di Mark -, di vecchi amori (“Caroline”) e di piccole meschinità (“Gustavo”), come dell’ineludibile dicotomia tra la vita – anch’essa, in fondo, solitaria – dell’artista ed il suo anelito alla tanto inseguita e mai raggiunta normalità (“Ceiling gazing”, riflessione che muove dall’ennesimo solipsismo). E’ un’America grigia, triste e massificata quella raccontata da Kozelek, una carrellata di fantasmi che scivolano incolori tra istantanee di scenari immobili e desolati, definiti e immortalati dall’uso martellante di toponimi, nomi propri, date e dettagli in apparenza insignificanti, reperti affastellati ed impilati come indizi in un’indagine di polizia. E’ un’America la cui fissità ricorda quella di Edward Hopper, ma privata dei colori: un mondo prosciugato dall’umorismo, ma non del tutto privo di gioia, quella minuta fatta di poche briciole sparse, quella che traspare da uno sguardo, da un ricordo, da un luogo, un mondo strano e allucinato, paradossale come l’incredibile storia di omicidio, galera e morte offerta con impersonale candore e spontanea nonchalance sulla melodia più catchy dell’album (“You missed my heart”). Disco di sommessa bellezza, piccola gemma per pochi estimatori, perla che resterà ignorata sul fondo del mare. (Manuel Maverna)