PAUL SIMON  "Hearts and bones"
   (1983 )

Paul Simon ha sempre avuto l’aria del buon amico di famiglia, quello che porta i dolcetti ai bambini quando viene a trovarti, una bottiglia di buon vino a te e i fiori a tua moglie. E’ gentile, pacato, si esprime con modestia e riflette con un comportamento mite ed una condotta irreprensibile un aspetto dimesso ed inoffensivo. E per di più canta pure. Ed è anche bravo, non c’è che dire; anzi, magistrale nel presentare con grazia e garbo signorile le sue canzoni in punta di chitarra con un filo di voce confidenziale ed una squisita eleganza. “Hearts and bones” è l’album che vara di fatto la carriera solista del genietto newyorchese dopo la fortunata parabola al fianco di Art Garfunkel, album discretamente trascurato dalla critica, ma ricco di spunti e soprattutto di deliziose, inconfondibili, accattivanti e melodiose composizioni che si caratterizzano per le atmosfere soffuse e per l’eleganza del loro incedere. Sorprendente è l’innata capacità di Simon di intrecciare diverse linee armoniche dando vita in pratica a due (ma anche a tre o più, come accade nel sogno patinato di “Rene and Georgette Magritte with their dog after the war”) percorsi nell’arco dello stesso brano, senza mai sbagliare l’affondo o andare fuori misura. E’ un mirabile gioco di equlibri ammirevole nella sua levigata pacatezza, addirittura suadente nella placida intimità che suggerisce, sia che il passo dei brani sia più sostenuto (l’iniziale “Allergies”, con un solo di chitarra splendido, o il beat scanzonato in levare di “When numbers get serious”), sia che si facciano strada episodi maggiormente orientati ad un sound imbastardito col jazz (su tutti la contorta progressione di “The late great Johnny Ace” con un finale sinfonico, ma anche la percussiva “Train in the distance”, lo sketch insidioso di “Cars are cars” con le sue continue esitazioni ed un ritornello imprevisto, o ancora lo shuffle da musical di “Song about the moon”), sia infine che la scena venga dominata da canzoni morbidamente rilassanti nel loro incantevole fluire. E’ il caso della title-track, che gigioneggia su un tempo country rallentato, o della prima delle due versioni di “Think too much” (la seconda riesce perfino a giocare con la disco music), eloquente nell’anticipare la svolta etnica di matrice afro che dilagherà su “Graceland” rendendo questa passione di Simon quasi totalizzante. Disco sereno da meditazione, a suo modo indifferentemente perfetto per un pomeriggio di pioggia sotto le coperte, un picnic in un tiepido giorno di maggio, una serata romantica, un viaggio in auto a velocità ridotta. (Manuel Maverna)