IRON & WINE  "Our endless numbered days"
   (2004 )

Samuel Beam, barbuto folksinger del South Carolina, spicca per profondità e spessore tra le molte voci che si dedicano da decenni a rinverdire i fasti della musica popolare americana. Interprete di stampo tradizionalista, depresso, dimesso e minimalista nell’estetica e nello stile come si conviene a tutta una genìa di cantautori d’oltreoceano da Will Oldham in giù, Beam si distingue tuttavia dalla pletora di colleghi per l’impiego di architetture sonore che deviano – sebbene solo a tratti - dal sentiero del folk più oltranzista. Come accadrà massicciamente nel successivo “The shepherd’s dog” del 2007, anche in questo delizioso album del 2004 si fanno largo suggestioni di stampo etnico (“On your wings”), ritmi spezzati alla Kurt Vile, accenni di primitivismo blues (“Teeth in the grass”, con spazzole e slide), idee che contribuiscono, insieme a liriche venate di un cupo pessimismo o di rassegnato fatalismo, ad innalzare il livello di questo materiale a vette talora eccelse. Peccato che, con altrettanta frequenza, il buon Sam indulga nella scusabile debolezza di rituffarsi nelle acque più placide e rassicuranti offertegli dalla confortante eredità atavica d’America, di fatto impastando rilassatezza e prevedibilità in una miscela tanto gradevole quanto manieristica. Il sottile tappeto percussivo che rende l’esistenzialismo laid-back di “Cinder and smoke” un gioiello da incastonare nella memoria personale e collettiva, tra vocalizzi à la Manhattan Transfer ed un passo da Paul Simon, sposta sì in avanti il confine del songwriting campestre, ma non riesce a prevalere sulle linee chitarristiche abusate di una “Sunset soon forgotten” parente dell’ultimo Kozelek, la cui influenza torna a farsi viva in parecchie tracce dell’album, o sulla nebbia soporifera di “Radio war”, come di altri episodi inessenziali. L’ombra lunghissima di Paul Simon riappare nella toccante armonia di “Each coming night”, sempre in punta di chitarra, con l’ultimo sussulto riservato all’aura bluesy di “Free until they cut me down”, quasi un Tom Waits edulcorato; ma si tratta di un fuoco di paglia, con il disco che finisce per spegnersi in calando, su tre esili, rurali melodie arpeggiate che potrebbero indifferentemente provenire dal repertorio di Surfjan Stevens, dei Jayhawks, di Mason Jennings o di chiunque altro, tre scarne, essenziali trame che lasciano dietro di sè poco più di una promessa, preludio allo scintillante rimpasto stilistico dell’album che seguirà. (Manuel Maverna)