BRUCE SPRINGSTEEN  "High hopes"
   (2014 )

Un nuovo disco di Bruce Springsteen. Ovvero un nuovo disco per un artista che tende sempre di più ad assomigliare (almeno per tenacia artistica) a Bob Dylan: operai del rock che pongono in essere tour a ripetizione, quasi fosse l’unica via della salvezza. Ma se il vecchio folletto di Duluth è migliorato nel tempo, concedendo dischi dal sempre alto ed accresciuto valore qualitativo, per Springsteen le nuove incisioni hanno un qualcosa di incompiuto o, almeno, di assai inferiore rispetto a certi classici del passato. Il precedente “Wracking ball”, invero, aveva alzato un po’ la testa, dimostrando alla pattuglia della E Street Band che canzoni trascinanti potevano ancora essere prodotte. Questo “High hopes” ci suggerisce che Bruce Springsteen è in quella fase in cui sente il bisogno di scrivere canzoni quasi come “scusa” per ritrovarsi ancora on the road: nuove incisioni, dunque, per giustificare l’ennesimo world tour. Ed il pensiero è ancor più avvalorato dal fatto che il Boss pesca anche dal passato, pur di completare a tempo di record un nuovo disco. Cover e pezzi che facevano già parte del repertorio live di Springsteen sono inserite tra nuove composizioni (anche se c’è il sospetto che siano state nascoste tempo fa in un cassetto per essere riprese nel momento opportuno). La novità è rappresentata da Tom Morello, già celebre chitarra dei Rage Against the Machine, che interviene in quasi tutte le tracce del disco (e c’è già chi è pronto a scommettere in una sua entrata ufficiale nella E Street Band… tour compresi), e nel ritorno (per ovvie ragioni non più dal vivo) di Clarence Clemons e Danny Federici. I loro strumenti compaiono, dunque, anche in questo disco, come se la loro presenza fosse una sorta di definitivo passaggio di consegna in seno alla band. Ed il disco? Non rimarrà troppo deluso chi è cresciuto con il sound di questo artista, perché qui ci si imbatte nel solito rock generoso e ben suonato (un po’ scontato?), ma che dalle note dell’apripista “High Hopes” (canzone non autografa, ma cover degli Havalinas), si giova della chitarra di Morello. Uno strumentista capace di innovare il sound della E Street Band (ormai riconoscibile da decenni), attraverso le sue svisate così personali. Coraggiosi. “American skin. 41 shots” giunge finalmente su un disco in studio, dopo essere stata proposta a lungo nei live: i cori della E Street, perfettamente effettati, sono il leit motiv del brano. “Just like fire would” nasce come cover (dei Saints), anche se in realtà si dovrebbe gridare al plagio della bellissima “Small town”, di John Mellecamp. Evitabile. “Down in the hole” ha un suono molto dolce anche grazie ai cori di Patti Scialfa; “Heaven’s wall è una di quelle canzoni che dicono veramente poco su disco, ma che sono fatte per essere vissute dal vivo. Per il resto, il solito sound di Springsteen. Tra le altre, ricordiamo una quasi celtica “This is your sword” ed una pacata “Hunter of invisible game” (gli archi completano ottimamente il sound), per andare ad una “The ghost of Tom Joad”, qui suonata alla maniera rock della E Street Band (anche se preferivo la versione scarna dell’originale). E poi il gran finale. Quello inatteso. Quello con il botto. Spunta la cover di “Dream baby dream” dei grandi Suicide. In realtà è una cover che Springsteen tirò già a sorpresa anni fa, quando era solito concludere i concerti del “Devils & dust tour” con il gioiello firmato Alan Vega e Martin Rev. Il Boss ha aspettato un po’ di anni per decidersi a mettere su disco questo brano, ma mai scelta fu più azzeccata da parte dell’americano. Una cover sentita (forse più di un’originale… e non ho certo detto poco), in cui la voce di Springsteen sussurra la buona notte, mentre è accompagnato dal semplice ma indispensabile organo. Una canzone che ci dice come, spesso, la semplicità in musica riesca a centrare l’obiettivo molto meglio che strani e ridondanti artifici. A centrare il cuore, per dirla tutta. (Gianmario Mattacheo)