DAVIDE VAN DE SFROOS  "Pica!"
   (2008 )

Lo sguardo al contempo profondo e divertito, capace di sondare con umore cangiante luci ed ombre di una variegata umanità, ed il dono di narrare con la genuina semplicità e la pungente immediatezza di un aedo di piazza – non già di un musico di corte – sono doti che pochi grandi artisti possiedono. Davide Van De Sfroos – al secolo Davide Bernasconi, brianzolo cresciuto sul lago di Como – è un signore brizzolato sulla cinquantina, uomo ruspante da grappino al bar della stazione o da partita a scopa coi pensionati, lingua biforcuta il cui innato, istintivo talento per la caricatura – umoristica e non – informa di sè da oramai vent’anni dischi intrisi di una ubriacante mistura di dissacrante ironia, maestria descrittiva ed intenso intimismo. Il percorso di Davide da cantante popolare e – a suo modo – giullaresco ad artista di caratura superiore, capace di raggiungere e conquistare fasce di pubblico molto più ampie ed allargate di quanto il taglio regionale e dialettale della sua opera suggerirebbe, si snoda dagli esordi semi-artigianali con i De Sfroos passando per l’album della maturità partorito dalla band (“Manicomi” del 1995), proseguendo con il debutto solista di “Breva e Tivàn” (1999) fino alla brillante partecipazione al festival di Sanremo del 2011 con “Yanez”, fortunato ed azzeccato brano che si classificò al quarto posto facendo da apripista all’omonimo album. Impropriamente – ma da più parti – paragonato all’inarrivabile Faber, Davide Van De Sfroos è autore che brilla di luce propria, artista autentico degno di essere annoverato tra le grandi voci del folklore italico. Mentre De Andrè resta un intellettuale che affronta la cultura popolare da una prospettiva colta, Van De Sfroos è un cantastorie di strada, intrattenitore che si autocolloca allo stesso livello dei personaggi pittoreschi di cui narra le umili gesta: il suo peculiare scavo psicologico è tutt’altro che metafisico, frutto anzi di un realismo naif che dispiega in versi semplici ma di rara intensità la propria forza espressiva, in una ottica priva di finalità socioculturali forse più affine al grande Enzo Jannacci (che era però anch’egli un intellettuale). Se Van De Sfroos recupera la tradizione è solo per rivivere con nostalgia pezzi di vita, e non già per farne materia di studio nè testamento per le generazioni a venire: se le prostitute di De Andrè assurgono a muse sui generis, per Davide una pelanda resta una pelanda. Da qui muove “Pica!”, lavoro del 2008 che rappresenta forse il vertice artistico della produzione discografica di Davide, album di tale e tanta ricchezza da rasentare la perfezione stilistica, pietra miliare che condensa in settanta minuti di musica etnica (nella sostanza, non nella forma) quindici brani strabordanti, rigonfi di storie, ricordi, suoni, parole e strumenti. Mentre il tema altrove universale dell’amore rimane marginale, osservato e narrato com’è dal di fuori (la ballata degregoriana di “Loena de picch” o lo splendido blues rallentato di “New Orleans”), la ribalta è spesso occupata da personaggi di un piccolo mondo moderno, la cui caratterizzazione è delineata ora con humour bislacco (l’up-tempo cajun di “El puunt”, l’esilarante “La ballata del Cimino”, il bluesaccio di “L’Alain Delon De Lenn”) ora in tono più riflessivo e meditativo (“Il minatore di Frontale”, “40 pass”, “Il costruttore di motoscafi”, tutti brani entrati nei classici del suo repertorio), ora con intento più astratto e filosofeggiante (la tribale “Lo sciamano”, l’eterea “Furestee” o l’immancabile dedica al lago sublimata qui nel reggae mascherato de “La terza onda”). Tra il delirio western di “Fiil de ferr” e la complessa “Il cavaliere senza morte”, forse l’episodio maggiormente avulso dal contesto, cala il sipario sull’invocazione sussurrata di “Retha Mazur”, poco più di un soffio di vento che muove fili d’erba a ridosso della riva, mentre tutto intorno pare di vederli: volti, fantasmi, colori, ombre. Sembra quasi - per un’ora e dieci minuti di tempo immobile ed inebriante suggestione - di vivere sospesi in un improbabile altrove, di poter inalare profumi o scorgere panorami, di intuire presenze arcane, di toccare con mano un mondo nel mondo, mai così onirico, mai così reale. Capolavoro. (Manuel Maverna)