MAZZY STAR  "So tonight that I might see"
   (1993 )

Tra le non poche formazioni che cercarono di dar vita, a partire dall’inizio degli anni ottanta e per almeno un decennio, ad una attualizzazione del verbo Velvet Underground capace di prescindere almeno in parte dalla componente sinistra, decadente e negativa propria della seminale band newyorchese, ci furono sicuramente i Mazzy Star di David Roback e Hope Sandoval. Nati dalle ceneri di tre band altrettanto fondamentali per l’operazione revivalistica di cui sopra (Rain Parade, Dream Syndicate e Opal), i Mazzy Star raffinarono nell’arco di tre soli album il tentativo di coniugare folk-rock, blues e psichedelia, partorendo una forma espressiva ibrida imparentata sia col dream-pop dei Cocteau Twins, sia con le cupe divagazioni fokish dei Cowboy Junkies, rinunciando tuttavia al lato naif dei primi ed al noir patinato dei secondi. Musica ipnotica più che psichedelica, trance onirica più che shoegaze, quella dei Mazzy Star è una fosca rivisitazione edulcorata della lezione appresa dai Velvet Underground, ma collocata su un piano differente; ad un passo rallentato, con la batteria mixata sempre in lontananza, le chitarre pennellano di volta in volta romantiche ballate notturne d’antan (“Fade into you”, “Five string serenade”, “Blue light”), sghembi blues scarnificati (“She’s my baby”, “Wasted”), stralunate lullaby (i 2-accordi-2 à la Jesus & Mary Chain di “Bells ring” e la nenia spettrale di “Into dust”), ma soprattutto compongono il piatto forte, un rarefatto wall-of-sound che costituisce la vera ossatura portante di brani sottilmente noisy, psicologicamente stordenti e subdolamente stranianti. Mentre Hope Sandoval dipana il suo gorgheggio flautato in un tutt’altro che confortante tono fanciullesco (ricorda a tratti Alison Shaw dei Cranes), la chitarra di Roback vaga inquieta ricamando tessiture sospese su una fragile struttura free-form. Mirabile è l’esempio di “Mary of silence”, lamento sbilenco su un rallentato incedere elettrico-percussivo, ma a sublimare la tendenza è soprattutto la title-track: mentre Hope declama frammenti di una love-story sui generis in un registro a metà tra il torbido ed il lascivo, la musica agonizza arrancando monocorde per sette minuti su una ossessiva cadenza assassina à la “Venus in furs”, chiusa da una interminabile, palpitante coda di distorsioni che collassa nel nulla. Album plasmato su musica impalpabile - ma paradossalmente densa -, “So tonight that I might see” è opera intrisa di una fortissima eco doorsiana/velvetiana che fa da contraltare a composizioni dilatate, luce ed ombra fuse in canzoni sfuggenti talora impenetrabili, la cui intensità è interamente giocata sull’eterno equilibrio-squilibrio tra contrasti. (Manuel Maverna)