ALICE IN CHAINS  "Facelift"
   (1990 )

La fama consolidata e duratura degli Alice in Chains di Seattle è largamente ascrivibile all’aura maledetta e tossica che li ha circondati – e inevitabilmente li ammanta tuttora – prima e dopo la triste, segnata, inevitabile dipartita di Layne Staley da quella valle di lacrime che la sua esistenza era divenuta. Creatura in larga misura riconducibile alla mente funerea e depressa di Jerry Cantrell, gli Alice in Chains segnarono il versante più oscuro del movimento grunge nel corso della sua stagione più fertile, all’inizio degli anni ’90, grazie ad un pugno di album caratterizzati dall’ineguaglibile voce straziata del vocalist e frontman eroinomane Layne Staley e dalle fosche geometrie elettriche partorite dallo stesso Cantrell. Quella dispensata sul debutto di “Facelift” è una musica sostanzialmente brutta e agonizzante, dall’incedere cupo e monocorde, una musica scientemente depauperata di qualsiasi afflato melodico, un singhiozzare continuo che lascia dietro di sè un ammasso di detriti, sporcizia, rovina ed autodistruzione; ogni album degli Alice in Chains è nulla più di un baratro nel quale l’arte fosca della coppia Cantrell-Staley riesce – con sorprendente assurdità – a rifulgere di una propria sordida, allucinata, stravolta compiutezza, fra testi grondanti disperazione e rassegnato fatalismo, dai quali fanno capolino figure distorte avvolte in un’aura malsana, ed accordi impenetrabili come fango che spingono i brani sempre nello stesso cul de sac. E’ una scrittura tormentata, quella di Cantrell, alla quale funge da perfetto contraltare il lirismo decadente di Staley, che in un registro talvolta quasi blues (“Man in the box”) intona litanie catacombali sulle basi (piuttosto prevedibili e manieristiche) grunge del chitarrista: le canzoni mancano sia di sviluppi interessanti, sia di contrappunti e/o di modulazioni che rendano più accattivanti le atmosfere agonizzanti ripetute all’infinito. L’esito complessivo è piuttosto cantilenante, con ritornelli tanto insistentemente cercati quanto desolatamente spenti e statici (“Sea of sorrow”, “Bleed the freak”): l’effetto è stordente, un magma pressochè indistinto di tinte oscure che mira ad ottundere e ad opprimere, privando questo quadro spettrale di ogni spiraglio di luce e – soprattutto – di qualsiasi barlume di speranza. Rare eccezioni a questo martirio – più mentale che sonoro, in definitiva, giacchè troppo banali sono le linee musicali per atterrire o inquietare davvero – sono rappresentate dagli esitanti accenni di melodia e di sviluppo di “Love, hate, love”, dall’hard-rock à la Guns’n’Roses di “Put you down” o dalla lineare progressione di stampo metal dell’iniziale “We die young”, ma soprattutto dal maniacale rallentamento omicida della conclusiva “Real thing”. Sono timide aperture, mai baciate dal chiarore del giorno, falsi spiragli di falsa luce in un tunnel privo di sbocchi, quello stesso tunnel che diverrà la tomba di Staley ed una cicatrice permanente sulla pelle di Cantrell. (Manuel Maverna)