SAINT LAWRENCE VERGE  "This is the way"
   (2014 )

Premessa: questo disco, parto di una band italiana esordiente e non già di un blasonato ensemble art-rock islandese o albionico, è un piccolo capolavoro, opera di mirabile splendore destinata con tutta probabilità a rimanere una delizia per pochi. Avventurarsi nella improduttiva, cervellotica ricerca enciclopedica di ascendenze, riferimenti, referenze e rimandi rimarrebbe sterile arzigogolo; superfluo sarebbe snocciolare nomi nel vano tentativo di incasellare, imbrigliandolo, questo inenarrabile debutto dei Saint Lawrence Verge, trio modenese che riesce, nello spazio di otto tracce per quarantaquattro inafferrabili ed inclassificabili minuti, a cesellare una musica di inestimabile, regale preziosità. Carezzevole, mutante e sfuggente, va in scena un’ondivaga folata di atmosfere sospese tra arpeggi di chitarra, corposi inserti pianistici e sottili tranelli ritmici, una stasi minimalista che ammicca oscillante alla psichedelia senza scomodarla, rinunciando al crescendo di maniera per abbracciare sviluppi laterali solo falsamente lineari. Su un riconoscibile substrato mutuato dalla musica classica, si innestano sporadici elementi ascrivibili forse al mare magnum del post-rock, ma sarebbe un errore imperdonabile ri(con)durre la parte al tutto, giacchè nella forma - come nella sostanza - questo flusso di musica impalpabile, che vive della sua stessa incantata ed incantevole bellezza, non è rock; nè oscura nè emozionale, nè immaginifica nè concreta, quella dei Saint Lawrence Verge è espressione che travalica i generi ed annulla i confini, una sequenza non casuale di idee in movimento che conducono ovunque si voglia, in una inarrestabile deriva verso un indefinito, astratto altrove. Ovunque è un florilegio di salti, arabeschi, intriganti magheggi e ben celate, ardite sorprese, dal tempo dispari che spezza la coda di “The vaults I” alla girandola di inciampi ritmici disseminati ad arte in “The absence room”; dalle suggestioni astrali di “Ascension in golden storm” (con un pregevole dialogo pianoforte/violoncello e contrappunto di rumori di fondo) all’aria falsamente folkish di “A decade”, che inizia come una ingannevole murder ballad prima di lasciarsi ingoiare da un vortice di repentine progressioni neoclassiche. E se “All in faded days” allestisce uno sghembo salterello rallentato che ben figurerebbe nel repertorio dell’ultimo Kozelek, “Three guns lullaby” dispensa un trasognato minimalismo, trafitto ora da una accelerazione western, ora da figure svagate della chitarra, indi da echi jazzy, infine da un inatteso tema percussivo a chiudere. Pur abbondando le tracce strumentali, la voce di Hatsya, lungi dall’apparire inessenziale, diviene essa stessa strumento integrato nel contesto, suono compresso che ne arricchisce l’obliquità muovendosi su un registro tra il sussurrato ed il baritonale (“The absence room” richiama le atmosfere dei magistrali For Carnation di Brian McMahan), soffio spettrale che nell’ingorgo barocco di “The vaults II”, ad un passo dai Dead Can Dance, accompagna ad arte un incedere sornione, prima che una improvvisa variazione à la David Sylvian la conduca al finale sinfonico mutando tema e tonalità nello spazio di poche battute. Unico neo, perdonabile sebbene non del tutto trascurabile, è l’apparente rinuncia, forse voluta, a riporre nello sviluppo della profondità dei suoni una cura ed un’attenzione che avrebbero potuto fare di “This is the way” il capolavoro magniloquente che non è, anzichè il capolavoro di disarmante, aperta fluidità che è. (Manuel Maverna)