SACRI CUORI  "Delone"
   (2015 )

Il nuovo album dei Sacri Cuori – allargato, fluttuante trio romagnolo di non-giovani dalla tardiva vocazione - va preso a scatola chiusa, e nella sua totalità va consumato e digerito: impossibile scinderlo in parti, improponibile gustarlo a pezzi. Come sostiene Antonio Gramentieri, leader e co-fondatore del gruppo, si tratta di una musica cinematica e – aggiungeremmo - dalle mille valenze, perfetta per una balera estiva, per una serata al dancing o per una sagra campestre, ottima come colonna sonora di un telefilm poliziesco o come aria da night-club, buona per un matrimonio, per il piano-bar, per il lounge-bar, per il cocktail-bar, adatta alla lap-dance, ad un cartone animato, ad una spy-story, ma anche ad una sit-com o ad uno sketch di cabaret, utilizzabile per un funerale all’americana o per le comiche, per il teatro di rivista, per un soft-porno, per un aperitivo in piazza o per una partita a carte all’osteria: comunque la si voglia spiegare o impiegare, quella dei Sacri Cuori è una vivace sarabanda sonora dall’immenso potere immaginifico, espressione scenografica che brilla per sommessa eleganza e per le molteplici sfaccettature che incessantemente la connotano e ne definiscono la peculiarità. E’ musica smaccatamente popolare, antica come certe usanze di paese, come un piatto tradizionale mangiato alla festa del Santo Patrono, una musica così fuori dal tempo da rasentare la provocazione nel suo elevare ad arte una formula di folklore ancestrale ricondotto ad alcune figure archetipiche, qui rappresentate in varie fogge: proprio questa è la sua bellezza, e forse il suo solo limite, l’accennare senza completare, il lasciare in sospeso senza mai affondare. Intervallando brani strumentali ed altri cantati (affidati all’ospite d’onore, l’australiana Carla Lippis, eccetto la lasciva aria western/lounge di “Serge”), piccole ed incantevoli gemme scorrono offrendo sfumature variopinte, dal calypso di “La Marabina” al ballabile languido di “Portami via” (violino e slide-guitar ad un passo dai grandi Ronin di Bruno Dorella), dal tango in francese di “Seuls ensemble” all’esotismo-Caravan-Petrol di “Madalena”, passando indifferentemente per la perfezione formale della title-track (lineare, melodiosa ballad à la Calexico), per il cheek-to-cheek di “Dirsi addio a Roma” (con sentori di rotonda-sul-mare, zanzare e cedrata) o per lo scherzo macchiettistico di “Cagliostro blues”. Ma sono soltanto briciole, suggerimenti, consigli per gli acquisti: disco anacronistico, a suo modo splendidamente affascinante, raccolta di idee che si crogiola sulla propria autoreferenzialità potendosi concedere il lusso di farlo, “Delone” è ammaliante canto di sirena che incarna tutto ed il suo contrario, istantanea un po’ felliniana, un po’ morriconiana di un tempo lontano e vivo, un po’ Raoul Casadei, un po’ maestro Canello di fantozziana memoria, flash retrospettivo in bianco e nero, splendido anche nella sua dichiarata, frammentaria incompiutezza. Unico e prezioso. (Manuel Maverna)