JARRED, THE CAVEMAN  "I'm good if yer good"
   (2015 )

In tutta sincerità, franchezza ed onestà, per una buona volta confiteor che mimporta ‘nasega di scervellarmi per elencare – in rigoroso ordine alfabetico – la pletora di artisti, star affermate, astri nascenti, attori o oggetti cui i Jarred, The Caveman, band per due terzi italiana – si badi bene – potrebbero essere accostati; parimenti, immaginate stavolta cosa mi frega di assumermi la bega di stare ad indagare su ascendenti e legittimari di una band che nasce dal caso e che riesce – udite, gente – a pennellare un album di esordio (unico precedente il mini di cinque tracce “Back into the sinkin’ ship”) che vale in toto l’ascolto, il riascolto, la digestione, oltre a suscitare sia una viscerale simpatia sia una sconfinata stima per la sua generosa profferta di belle canzoni. Suvvia lettore, cosa ne pensi di dimenticare, di lasciarci andare, di obliare i generi, la forzata sperimentazione, i dotti paragoni, gli arzigogoli da scribacchini, e di celebrare questo piccolo grande disco per quello che è? In undici brani per quarantadue minuti senza un errore – come tirare 11/11 da tre punti - il trio affida al mixaggio di Antonio Gramentieri (Sacri Cuori, mica lapislazzuli) e ad una scrittura sapida, furba e accattivante il proprio message in a bottle d’antan, partorendo un lavoro la cui entusiasmante cifra stilistica è comparabile soltanto alla inesauribile verve che lo innerva. Le coordinate – questo almeno va precisato – indicano la via del folk-rock d’oltreoceano, astenersi perditempo: canta - con accento, indole, pronuncia da nativo americano - e schitarra Alejandro Baigorri, argentino trapiantato dai casi della vita alle nostrane latitudini, lo spalleggiano in sezione ritmica Luca Guidi e Matteo Garattoni da Santarcangelo di Romagna, in un tripudio di beat e sollazzo che sfrutta banjo, cowbells, tamburelli, coretti, accelerazioni, divagazioni pirotecniche e chicche assortite con la nonchalance che si riconosce ai veterani. All’insegna di un country sgrezzato, ingentilito da una eleganza espressiva che ne leviga le genetiche asperità, con acume da applausi l’album rinuncia a scimmiottare sia il folk caciarone da cassetta à la Mumford&Sons, sia le cupe derive introspettive di certo alt-country o sedicente tale, dagli Okkervil River ai Great Lake Swimmers giù fino ai Wilco più evoluti, privilegiando una ruspante schiettezza mai ruvida nè grossolana, indulgendo con inusitata maestria alla declinazione del verbo folk nelle sue ramificate sfumature. Incurante di mode e tendenze, mantenendo altresì una scrittura asciutta, sontuosamente essenziale, il trio spazia – in scioltezza e lievità – dagli accenti r’n’r di “Red wire” alla frenetica impennata di “She ain’t gonna come”, dalla baraonda in saliscendi di “Amelia” all’intimismo palpitante di “Interstate”, dall’accelerazione inattesa di “Troubles” fino alla placida chiusura sospesa di “Which one to lose”, ballata slack tanto dimessa quanto languidamente carezzevole nel suo lento fluire alla deriva, suggello suadente ad un disco immediato, godibile, privo di cedimenti, di pause, di episodi inessenziali. Album a suo modo clamoroso che si discosta dall’italico approccio al folk nobilitato – tra gli altri – da nomi di preclara levatura, dai Guano Padano ai già citati Sacri Cuori, dal primo Stiv Cantarelli all’immarcescibile Cisco, “I’m good if yer good” è sia sfoggio di personalità, sia lampante dimostrazione di classe, opera la cui trasparente spavalderia la renderà refrattaria a qualsiasi accusa di matrice derivativa: è il disco che Ryan Bingham – Dio lo benedica a prescindere: è lui il solo evidente riferimento che spero mi concederete giunti fin qui – non ha saputo scrivere negli ultimi cinque anni, una summa che ingloba, sintetizza, rimastica e risputa decenni di prove indiziarie trovando in ciò la propria paradossale specificità. Musica da mandare in repeat senza porsi domande capziose, semplicemente per la sua grande bellezza, la stessa che la ispira, la stessa alla quale tende. (Manuel Maverna)