JESSE MALIN  "Ousiders"
   (2015 )

Non tutti potendosi permettersi un Picasso in salotto, conviene magari puntare su quelle splendide, realistiche, fedelissime copie d’autore vendute con tanto di certificazione che le qualifica come “falsi autentici”: bello comunque appenderne uno sopra il divano, giocando al collezionismo di seconda fascia, apprezzando la fedelissima riproduzione dell’opera originale, lodandone l’imitatore, artista vero al di là dell’intento. Un’ottima copia d’autore, dunque: questo è oggi Jesse Malin, quarantasettenne newyorkese, stagionato mestierante del rock alle prese con un ritorno quantomeno prematuro (“New York Before The War” risale ad inizio 2015), voce rimasta silente per un quinquennio prima di ripresentarsi in splendida forma con una doppietta di buona qualità e di crescente intensità, songwriter di lunga militanza il cui solo limite, allo stato attuale, risiede proprio in una mancanza di specificità che rischia di sacrificarne l’estro, ricollegandolo alle molte penne più illustri d’America senza concedergli promozione sul campo, al più relegandolo al rango di voce minore. In “Outsiders”, opera imprevista scritta e registrata freneticamente durante proficue notti in Pennsylvania, il buon Jesse stipa quella sfrontata immediatezza che era in parte rimasta alla berlina in “New York Before The War”, riscoprendo l’attitudine selvaggia e scarna sepolta sotto la coltre patinata della rentrée in un afflato di schietta urgenza e veemente espressività, seppure talora inciampando nella riproposizione di atmosfere, linee armoniche e costruzioni di scoperta discendenza. Disco affatto intimista né raccolto, “Outsiders” oscilla ruvido fra tentativi di imporre la propria personalità e – per l’appunto - falsi d’autore talvolta al limite del plagio (su “San Francisco” si può cantare “Jesus, etc.” di Tweedy & soci), dispensando bordate di grezzo garage (il boogie sfrenato di “Here’s the situation”) e rimembranze di Neil Young (“All bets are off”), soprendenti arie à la Beck (“Society Sally”) e rock’n’roll che farebbe felice mr. Reginald Kenneth Dwight (“Whitestone city limits”). E se la cover di “Stay Free” dei Clash ricorda più Al Stewart che Joe Strummer, è altresì innegabile che “Outsiders” sappia regalare alcuni numeri di alta scuola, non a caso proprio negli episodi che maggiormente si discostano dai solchi tracciati dall’Americana della tradizione: è il caso della cadenza laid-back à la Steve Winwood di “Edward Hopper”, della sporcizia blues di “The Hustlers” o della conclusiva “You know it’s dark when atheists start to pray”, ballata fra Dylan e Josh Ritter dall’inattesa chiusa bandistica, tutti numeri che ribadiscono la cifra compositiva di un personaggio votato alla perenne ricerca di sé stesso, prigioniero di un enorme potenziale ancora in parte inespresso. (Manuel Maverna)