THE DOORS  "Strange days"
   (1968 )

Dopo un esordio fulminante come “The Doors”, la via obbligata era quella di battere il ferro finché era caldo e di riprovare a fare un altro disco del genere, e in effetti “Strange days” riesce a non far rimpiangere troppo il predecessore. E’ un ottimo disco, nel quale il tono allucinato di certe canzoni del primo viene esteso in pratica a tutto l’album, anche se non sempre con risultati geniali.

Si parte subito benissimo: “Strange days”, dopo il funambolico inizio organistico, introduce in un mondo irreale, dal quale emerge la voce di Jim Morrison, che già di suo sembra provenire da remote profondità, e in più viene sottoposta ad un inquietante effetto eco, senza pregiudicare l’ascoltabilità del brano, anzi.

Subito dopo un giro di basso ossessivo e sinistro annuncia la melodia stravolta e disperata di “You’re lost little girl”, una delle canzoni in cui Jim Morrison dà il meglio di sé con l’ormai proverbiale tono macabro della sua voce, a cui si aggiungono le nitide, tristemente metalliche risonanze della chitarra di Krieger, che abbelliscono non poco questo splendido brano.

Poi si discende un po’, ma mai troppo: “Love me two times” riprende gli schemi più classicamente blues-rock, ma con frenesia e cattiveria inconsuete, e con un tocco di genio come il velocissimo assolo centrale di tastiera simil clavicembalo, vera diavoleria di Manzarek.

“Unhappy girl” e “Moonlight drive” (quest’ultima è una delle prime poesie di Morrison, musicata per l’occasione) sono fortemente marcate dalle tipiche, distorte chitarre in stile hawaiano di Krieger, che nella seconda riescono ad esprimere veri e propri ululati. “People are strange” all’inizio sembra una canzoncina orecchiabile, ma presto subisce una deviazione verso il mondo delle allucinazioni, come del resto “My eyes have seen you” si trasforma da semplice rock in sfogo rabbioso. L’ultima parte ricalca fedelmente il primo LP: “I can’t see your face in my mind” propone lo stesso stralunato mondo di “End of the night”, e anche piuttosto bene, pur senza le sensazioni da brivido dell’originale.

Infine anche in questo disco è presente un apocalittico incubo finale, guarda caso da 11 minuti come “The end”: si chiama “When the music’s over”. Il confronto con la sofisticata e sublime tortura del primo album è inevitabile, ma si tratta di due composizioni abbastanza diverse: alla disperazione assoluta e senza fiato di “The end” è subentrata una dura e concreta rabbia, che a partire dall’urlo demoniaco iniziale fino alla fine contraddistingue questa seconda (ed ultima) puntata del viaggio musicale dei Doors nell’inconscio. L’abbondante contributo della batteria, il bell’assolo centrale delle tastiere elettriche, la prevalenza dell’urlo sullo smorto sussurro nella voce di Morrison, rendono questo incubo più verosimile ma un po’ meno suggestivo del precedente. (Luca "Grasshopper" Lapini)