SONS OF KEMET  "Lest we forget what we came here to do"
   (2015 )

La recente esposizione mediatica del talentuoso sassofonista Kamasi Washington, il cui mastodontico “The Epic” è stato salutato come uno fra i prodotti più intriganti ed acclamati del 2015, ha riacceso le luci su un mondo – quello del jazz – che costituisce da sempre una bolla a sé nella musica contemporanea: troppo lontano ed avulso dal mainstream per potersi affermare – se mai ve ne fosse bisogno – come espressione artistica fruibile per le masse, il jazz odierno squarcia di tanto in tanto l’elitario velo steso sul suo stesso fremente ardore e lascia filtrare all’esterno lampi di luce destinati anche ai molti non avvezzi a tale e tanta cerebralità. Shabaka Hutchings, originario delle Barbados e londinese di adozione, forma i Sons of Kemet nel 2011, dando vita ad un act chiaramente devoto al jazz tout court, ma capace di sublimarne l’essenza in una commistione figlia delle alchimie ondivaghe di Sun Ra come dei tribalismi esplicitamente mutuati dal folklore caraibico e – soprattutto – dalla cultura popolare africana. Tutti elementi ben evidenziati e sviscerati con soverchia passionalità nell’eccellente “Burn”, album di debutto della band nel 2013 e punto di partenza per delineare una via tutto sommato percorribile nel guadagnare accessibilità ad una forma espressiva in costante divenire. Formazione anomala fin dalla peculiare scelta della strumentazione di cui si è dotata (Hutchings al sax ed al clarinetto, Theon Cross – subentrato al grande Oren Marshall - al basso tuba, Tom Skinner e Seb Rochford entrambi dietro le pelli), nel nuovo “Lest we forget what we came here to do” i Sons Of Kemet si discostano in parte dall’approccio variegato dell’esordio prediligendo un sound più scarno e progressioni maggiormente incentrate sulla ritmica, sacrificando l’armonia ad esclusivo vantaggio di una percussività (traboccante in “Play mass”, più controllata in “Tiger”) mai così incisiva e totalizzante. All’insegna di una circolarità che solo di rado cede a divagazioni impro-jazz (ad esempio nell’ingorgo centrale dell’ammaliante opener “In Memory of Samir Awad”), i quattro imbastiscono un lavoro di solida concisione che mantiene una provvidenziale coesione tematica e dispensa fluidità sulle ali di ribollenti tessiture affidate più alla doppia batteria che ai fiati: le composizioni si sviluppano entro limiti e canoni ben individuabili, concedendo punti di riferimento ed appigli anziché sottrarli, al contempo strutturando una narrazione – si tratta di un lavoro a tema sul recupero e la valorizzazione delle origini - suggerita dal potere evocativo e suggestivo di una musica impeccabile nel suo incedere suadente e marziale (le due anime di “The hour of judgement”). Disco la cui maestria risiede nell’abilità di conservare intatto il proprio intento discorsivo senza ricorrere ad altre voci che non siano quelle dei pochi strumenti impiegati - seppure nel pieno rispetto di un’etica e di un’estetica che rimangono indissolubilmente legate al jazz -, “Lest we forget what we came here to do” conferma i Sons Of Kemet come uno dei pochi ensemble attualmente in grado di stabilire un contatto fra la musica colta ed il comune sentire. Bello e possibile. (Manuel Maverna)