FEDERICO ALBANESE  "The blue hour"
   (2015 )

I tempi cambiano – l'avreste mai detto? -, il post-rock degli albori è divenuto altro da ciò che fu, nemmeno il rap è più fine a sé stesso, men che meno il metal, aperto a contaminazioni e derive di ogni sorta; la musica da ballo oggi si chiama EDM ed ibrida indie e mainstream in una pulsione alla commistione dei generi che talora confonde, ma anche ammalia e conduce altrove. Neppure la ambient o il jazz sfuggono del tutto al risciacquo, così come la nobiltà della classica – espressione alta per eccellenza -, sdoganata a piccole dosi in un linguaggio che congiunge Nils Frahm e These New Puritans con la grazia insita nella profonda beltà che la anima. Su questo dolce declivio, una meravigliosa, tenue voce muta è quella di Federico Albanese, milanese di nascita e berlinese per affinità elettiva, canto di sirena affidato alle note distillate di un pianoforte votato ad interpolare punti luminosi di un universo parallelo. Espressione eccelsa di una emotività garbata che lega Francis Lai e Chopin in una fluida evocazione di scenari la cui immaginifica suggestione diviene orfico misticismo, quella distillata in “The Blue Hour”, opera pubblicata su etichetta tedesca Neue Meister a due anni di distanza dal debutto di “The Houseboat And The Moon”, è forma d'arte che vent'anni fa, non senza algido sussiego, avremmo forse catalogato come new-age, ma che assurge oggi a magistrale interpretazione di un neoclassicismo di maestosa contemporaneità, figlio sì del nitore di colta estrazione cameristica, ma intriso di un afflato quasi psichedelico nel rileggerlo. Le tredici tracce strumentali di “The Blue Hour” scorrono con la morbidezza del velluto tra figure insistentemente reiterate (“Time Has Changed”) e tessiture eleganti (“Silent Fall”), che con impalpabile lievità rimandano ora alla musica da film, ora al Philip Glass più accessibile, in una equilibrata alternanza fra carezzevole melanconia e misurata incisività (“And We Follow The Night”): melodie suadenti supportate – talvolta trafitte, ma con la pietas che a ciò si conviene – da un sintetizzatore discreto (la title-track, con echi di Alan Parson), da un violoncello avvolgente (“Shadow Land, Pt.1”) o contrappuntate da minuscole interferenze ambientali, trovano incastri la cui millimetrica perfezione disegna arabeschi tanto ampi quanto devoti ad una provvidenziale concisione. Lavoro mai dispersivo né presuntuoso, affatto tedioso o manieristico, paradossalmente focalizzato sulla stentorea potenza evocativa di un minimalismo gentile, “The Blue Hour” materializza paesaggi e sensazioni, visioni e chiaroscuri, condensando in poche note di toccante intensità quella sottile magia che lo eleva a piccolo gioiello di raccolta, palpitante, trasognata intimità. (Manuel Maverna)