JEFF LYNNE'S ELO (ELECTRIC LIGHT ORCHESTRA)  "Alone in the universe"
   (2016 )

Non si può non voler bene a Jeff Lynne, se non altro per avere attraversato quasi mezzo secolo di musica ed esserne uscito indenne, pulito e profumato. Inizialmente pioniere di una colta ibridazione fra il popolare ed il sinfonico, indi più incline al taglio prog, infine alfiere di un rock leggero ma incisivo, garbato e semplice nella sua squadrata regolarità, Jeff ha forse raccolto in termini di popolarità assoluta meno di quanto abbia seminato, senza che ciò gli abbia comunque sottratto lo status iconico di cui gode, soprattutto presso il pubblico più nostalgico. Persa una certa opulenta ridondanza, nella fase di tarda maturità la sua scrittura si è mantenuta gentile, abile ad intrecciare godibili mid-tempo, reminiscenze sixties, linee danzerecce, ganci da Abbey Road e passaggi armonici tipicamente british; una musica essenziale e asciutta forse non splendidamente invecchiata, figlia di un passato che sembra talora lontanissimo dai suoni, dalle mode e dalle tendenze odierne, ma che almeno conserva intatta la propria stringata naturalezza. Nella vita si cambiano le abitudini, non le passioni più radicate: fedele a sé stesso, Jeff realizza con “Alone in the universe” – terzo lavoro in studio negli ultimi sei lustri - un album che pare essere stato ripescato da un cassetto rimasto chiuso a chiave per decenni, quasi un fossile riportato in superficie dal fondo del mare, lavoro che si muove tuttavia con l’abituale disinvoltura lungo le risapute direttrici. L’apertura è affidata alla commossa retrospettiva autobiografica della beatlesiana “When I was a boy”, melodia zuccherosa che rasenta il melenso, cedendo provvidenzialmente il passo al bluesaccio in minore à la Johnny Winter di “Love & Rain”, episodio fra i meglio riusciti della raccolta. Inopinatamente si riprecipita al paleozoico sia con “Dirty to the bone”, testo risibile, apprezzabile melodia corale fra l’onnipresente fantasma di George Harrison e i Fleetwood Mac, sia con il funk slavato, un po’ Chic un po’ Steve Winwood, di “When the night comes”; “Ain’t it a drag” risolleva la baracca regalando un paio di minuti à la Tom Petty, finalmente ficcanti e maestosi (ma quel clap-clap nel bridge ed il coretto doo-wop in chiusura, santo cielo...), mentre “All my life” offre alla platea un lentaccio da Roy Orbison con incastri armonici comunque pregevoli, prima che Jeff imbocchi di nuovo il tunnel del tempo – rigorosamente alla rovescia – per una “I’m leaving you” – Paul Anka docet - da sala da ballo di provincia. In coda spiccano i due brani migliori: “One step at the time”, forse la traccia che più di ogni altro ricorda frammenti della vecchia ELO con il suo drumming robusto e quel chorus in falsetto che sembra rubato al soundtrack di “Fame”, e soprattutto la title-track, che chiude su una bella ballata esitante, classica sì, ma aperta – almeno nel sound della strofa - ad un barlume di modernità, qualcosa che svii dalla pedissequa imitazione di sè di cui tutto il lavoro rischia troppo spesso di cadere vittima. Disco talmente anacronistico da sfiorare la parodia, perfetto altresì per un nutrito stuolo di laudatores temporis acti, “Alone in the universe” si lascia digerire senza fatica, ma ad un patto: per godere appieno della sua soprendente freschezza-retrò occorre immaginare di ascoltare un best of pubblicato a metà degli anni ottanta e contenente canzoni degli anni settanta (ahimè, i pezzi sono tutti inediti e ci aggiriamo dalle parti del 2015, ma facciamo finta di nulla, noblesse oblige). Buon disco Jeff, fedele alla linea e di toccante schiettezza: onesto e coerente, certo, ma prima che sia troppo tardi bisognerà pure guardare avanti una benedetta volta nella vita. (Manuel Maverna)