THE LILLIE LANGTRY  "Jersey Lily"
   (2016 )

Tre ragazzi immaginari sbucati da un altrove indefinito rimescolano le carte di una musica apparentemente semplice da definire, in realtà fondata su una serie di anomalie che la rendono appetibile, conturbante, instabile nella sua caparbia ricerca di un approccio solo falsamente ruvido. The Lillie Langtry, all'esordio con questo “Jersey Lily” su etichetta Garage Records, sono un trio di Bologna – prima anomalia, nulla possiedono di italico al di là del passaporto: la perfetta pronuncia dell'inglese rinvia immediatamente verso lidi albionici, ma – seconda anomalia – la compattezza della musica devastante che offrono suggerisce di guardare oltreoceano per trovare affinità e divergenze rispetto a modelli blasonati, dai Black Rebel Motorcycle Club ad accenti vagamente mansoniani (l'attacco di “Chicken small bones” su tutti). La strumentazione impiegata farebbe pensare ad un power-duo, ma non usano chitarre – terza anomalia – bensì batteria e basso distorto: optano invece per una insolita formazione a tre con l'aggiunta di un cantante – quarta anomalia. Non finisce qui: dietro una patina di simulata efferatezza stesa su un frastuono roboante e sorretta da un sound slabbrato si cela una personale reinterpretazione di un garage-rock truce soltanto nella forma, quasi mai accompagnato – ennesima anomalia – da una corrispondente violenza espressiva (fa eccezione la bordata à la Strokes di “You will find me”, voce filtrata, sassata in pieno volto). L'operazione rimanda vagamente, almeno in tal senso, alla ferocia compressa dei primi Jesus & Mary Chain, sebbene privata dell'afflato malevolo dei fratelli Reid. Vanno dunque in scena dieci tracce che equivalgono ad altrettante schegge di debordante elettricità, schiacciate in poco più di venti minuti, quasi accenni di canzoni, brani vigorosi sì, ma mai sguaiati, assurdamente eleganti nella loro incompiutezza: dalla nevrosi gracchiante à la Jon Spencer di “Nightmares” al surf sbilenco di “Fiat 500”, dal ritornello contagioso di “Roses and drinks” al punkettaccio americaneggiante di “Dance”, la ricerca del trio non travalica mai i confini della forzatura né tantomeno della sperimentazione, nel sound come nella scrittura, ma riesce comunque a proporre una personale idea di rimpasto di stilemi di genere creando un linguaggio che reca in sé tracce evidenti di novità. E' proprio questa insolita modalità di accostarsi alla materia a rendere interessante un disco urgente, immediato, trascinante, a suo modo travolgente grazie alla deflagrante energia stipata in spazi angusti. Trio sicuramente da seguire, sia per valutarne l'evoluzione sia per osservarne la filigrana nella dimensione live, particolarmente adatta ad assecondare l'indole esplosiva di una band dal potenziale dirompente. (Manuel Maverna)