SONGS FOR ULAN  "Middle aged - middle ages"
   (2016 )

Inizialmente concepito come progetto solista di Pietro De Cristofaro, artista partenopeo da oltre tre lustri sulla ribalta con intermittente frequenza, incrollabile coerenza ed alterne fortune, il moniker Songs For Ulan cela oggi una line-up ampliata a cinque elementi mirabilmente impegnati a declinare con stentorea personalità un lo-fi folk venato di blues (o viceversa, se preferite) sì fedele alla primigenia idea, ma riletto alla luce di una interpretazione estremamente singolare. Album fondamentalmente confidenziale e riservato che richiama sia le atmosfere pigre e trattenute di Sam Beam, sia l’intimismo sofferente di Justin Vernon, “Middle aged-middle ages” è un compendio di ancestrale musica scarnificata, miscela di straordinario equilibrio che impasta Tom Waits e Cesare Basile procedendo per sottrazione in un ritorno al primitivismo formale di un suono immortale. Le costruzioni solo in apparenza esili dei brani rivestono bei testi dal taglio introverso, piccole gemme di dolente introspezione offerte in un inglese di anglofona perfezione, particolarmente adatto a veicolare l’anima fosca di queste tracce melanconiche, essenziali, mai ridondanti. Edificato su una vocalità intrisa di suadente sconforto, l’impianto delle canzoni è sovente ancorato ad intrecci delicati e notturni (l’opener “Pluto”, fra I Am Kloot e il Cobain più spettrale e desolato, l’agonizzante e bucolica riflessività di “2 faces”, il soffice rallentamento di “Fieldstar”), senza disdegnare rare puntate in territori più impervi: pregevoli i sei minuti della cavalcata elettrica di “Friends, you will always come back”, sospesa tra un passo da Willard Grant Conspiracy ed una coda à la Neil Young, così come una “Crashin’” che inizia in sordina con basso, voce e disturbi chitarristici, prosegue con l’ingresso di armonica, tamburello e doppia voce, culminando infine in una esitazione che lievita incupita deflagrando nell’ultimo, palpitante minuto. A qualsiasi trabocchetto si rimetta, l’intero lavoro non smarrisce mai ispirazione, coesione, appeal: dalla melodia sbilenca di “Cage”, blues bislacco e indolente à la Nick Cave trafitto da piccole asperità, alla toccante aria pianistica di “The crazy ones I know”, disturbata da contrappunti tanto irrequieti da evocare Jason Molina, dal country slabbrato di “A good man”, voce mixata in primo piano e solo di chitarra scordata, all’incedere plumbeo di una “Decadance (kill u all)” che si contiene senza esplodere, ogni traccia intesse suggestivi ricami oscillanti fra quiete rilassata e meditativa tristezza. Proprio lo stato d’animo sul quale si chiude l’album, con l’aria dimessa e stralunata di una “Before I leave the house” affidata alla solitaria mestizia di un pianoforte lontano, suggello ad un disco di raccolta bellezza, che riluce per grazia e misura pur nelle sue trame afflitte e nella sua umbratile, fascinosa indole. (Manuel Maverna)