SMEGMA BOVARY  "Coppa del nonno"
   (2016 )

Caratterizzati da un synth-pop ipnotico e provocatorio, che ha le sue radici in alcuni esperimenti di Battiato e nei rivoluzionari CCCP, il trio siciliano degli Smegma Bovary prova a ricondurre il genere verso nuove soluzioni espressive, staccandosi abbastanza nettamente – dal punto di vista dell’approccio – da altre band simili a loro, più o meno recenti.

Ormai non è più una novita: il synth-pop è sempre stato un’onda lenta ma inesorabile, che periodicamente ritorna di moda e offre ispirazione e ricerca artistica a nuove e vecchie band nostrane o straniere: dalle sue sfumature più riuscite e straordinarie – vedasi i Beach House, i Passion Pit, i Radio Dept. – a quelle più facilone e banali, che non cercano l’innovazione ma solo il passatempo – e in questo senso gli Empire of the Sun forniscono un esempio perfetto – e finiscono per annoiare. Stiamo parlando di uno dei generi re di questo millennio appena iniziato, che ha sfornato in poco più di quindici anni album memorabili, diventati già dei classici. In Italia i più grandi del settore sono stati i CCCP, che nella seconda metà degli anni Ottanta hanno dettato la linea new-wave nella Penisola, e quanto gli Smegma Bovary abbiano preso da loro è palese già dall’incipit: “Il Mio Dovere” dipinge una società nevrotica in cui il protagonista è immerso e si sente soffocare, dove il lavaggio del cervello e l’obbligo di essere produttivi e perfetti hanno ormai avuto la meglio sul suo tentativo di liberarsi e ricominciare da zero. “Dicono Sia Normale” rispetta tutti i canoni del brano-tipo del synth-pop italiano di questo decennio, e nelle sue semplici soluzioni può essere un “manuale per l’uso” per chiunque volesse tuffarsi in questo mondo.

L’influsso dei CCCP è predominante: in “Igiene Orale”, uno dei picchi del disco, la drum machine si intreccia ad assoli di chitarra aggressivi e paranoici, mentre la voce di Emilio Cinquerrui declama le sue regole di vita personalizzate con una convinzione e cattiveria degne di Giovanni Lindo Ferretti; le ripetizioni finali sono uno degli stilemi più geniali – e, nel corso dei decenni, più abusati dai gruppi che li imitavano – dei primi CCCP, quelli degli EP e del sublime disco d’esordio, e servono a sottolineare l’alienazione a cui è sottoposto l’uomo moderno, schiavo di sogni e speranze che l’Italia – e il mondo intero – ha creato e disatteso nel giro di pochissimo tempo. “Un Disagio da Poco” – intrigante nell’inquietudine che emana – è il tributo d’amore che il trio siciliano costruisce per i tardi CCCP, quelli influenzati dalla world music e dalle sonorità etniche, e sembra essere uscito da “Epica Etica Etnica Pathos”. Il sound di “Affinità e Divergenze” ritorna in “Olocausto”, episodio minore con spunti sociali e storici nel testo, dove il basso è co-protagonista insieme alla voce.

Tante sono le sfumature che l’album accarezza. I coretti di “Nella Luce” costituiscono un altro elemento di snodo del disco: la polifonia che i synth – uniti al ritmo malato della batteria e della voce posseduta di Cinquerrui – creano è un’altra caratteristica grandiosa a cui il trio riesce a dare vita. Non c’è un unico protagonista in questo progetto: la voce certamente spicca sul resto, ma ogni angolo di ciascun brano è perfettamente smussato e studiato nei minimi dettagli. Se l’originalità non è il punto di forza dell’opera, la produzione è la sorpresa più piacevole: l’album si ascolta con gusto anche grazie alle sonorità curatissime e mai banali. Qualcuno può rimanere impressionato maggiormente dal lead singer, qualcun altro dalle spruzzate conturbanti dei sintetizzatori, un altro ancora dai cori. In “Escathon” questo senso di polifonia divertita e coraggiosa assume contorni ancora più giocosi e provocanti, con un cantato in bilico tra ironia e verità a denti stretti, indiscutibile punto di forza della band.

Un’altra, ulteriore svolta è “Precetti”, una lenta ballata pop il cui tappeto sonoro è debitore di certi universi tratteggiati da M83 e Chromatics, ed è l’esperimento più “internazionale” dell’intero disco. Questa linea continua con “I Bambini Cattivi”, dove ancora ironia e grottesco si fondono stupendamente, mentre subentra un sottile senso di spiritualità e rimorso. La conclusiva “Amo le Ragazze” procede nella medesima direzione: qui la chitarra acustica e la voce stanca compongono uno strano mormorio psichedelico che con lo scorrere dei secondi si incanala nel suono degli ultimi CCCP o primi CSI, in uno strano, meraviglioso equilibrio tra folklore slavo e cantautorato italiano. Le soluzioni espressive sono numerose, le fonti di ispirazioni pure; questi ragazzi hanno tanti padri spirituali, ma ciò non li limita. Il disco – che se non ha picchi non ha nemmeno punti deboli – procede con ispirazione e maturità, dimostrandoci che gli Smegma Bovary possono aspirare ancora a tanto. (Samuele Conficoni)