TOUCHÉ AMORÉ  "Stage four"
   (2016 )

Certi dischi hanno fretta, urgenza, bisogno di esprimere qualcosa di intimo, di scomodo, di indicibile e inenarrabile, qualcosa di cui si fatica a parlare. Il dolore di un lutto va al di là del male che ti fa nell’istante esatto in cui qualcuno che ami esce di scena; il dolore di un lutto si insinua tra le pieghe della vita che continua, striscia ogni giorno sottopelle a ricordarti che è successo davvero. Il dolore di un lutto non ti lascia mai. Nel 2014 il cancro si è portato via il papà di Manuel Agnelli, che ha metabolizzato e sublimato quella perdita nell’immenso “Folfiri o Folfox”, pubblicato nel giugno di quest’anno; nel 2014 la stessa malattia si è presa la mamma del cantante dei losangelini Touché Amoré, Jeremy Bolm, che in un estremo impulso alla catarsi tenta di esorcizzare demoni e colpe nelle undici strazianti tracce di “Stage four”, inevitabilmente imperniato su morte e struggimento. Mai rinunciando al linguaggio di elezione che ne ha fatto un’icona del post-hardcore mondiale alla pari dei La Dispute, il quintetto declina il leit-motiv sviscerandolo in un album timidamente più morbido dei tre che lo hanno preceduto, affidandosi sì come di consueto allo screamo torturato di Bolm ed alle tessiture in minore delle chitarre di Stevens e Steinhardt, ma concedendosi anche il lusso di allungare ed arricchire le composizioni muovendo verso una concezione musicale appena più accessibile, sebbene intrisa dell’abituale furore espressivo. Al centro del disegno ci sono i testi, totalmente incentrati su rimorso e scoramento (“Flowers and you”, apertura che tocca vertici di quasi insostenibile tensione), fra brandelli di memorie che affiorano in superficie (“Palm dreams”) ed il ricordo di piccoli gesti appena abbozzati, vestigia di una minimale quotidianità rimpianta e smarrita (“Water damage”). Pallida e defilata resta l’invettiva contro Dio (“Displacement”), reso dalla cieca incoerenza del dolore sia bersaglio sia pensiero salvifico (“Benediction”, dove Jeremy per la prima volta in quattro album canta una strofa) in un microcosmo di acquisita consapevolezza (“Posing holy”) che collassa nella lacerante, sconvolta, rigonfia ripetizione finale di “Skyscraper”, ospite la giovane Julien Baker ai cori. E’ un’emotività di pancia quella che Bolm vomita senza requie su un tappeto sonoro di strabordante intensità, un inferno personale condensato in arie di toccante mestizia lanciate a folle velocità (“New Halloween”), una stravolta invocazione rivolta contemporaneamente al nulla, a sé stesso, allo spirito dei trapassati: impossibile scindere in parti un album la cui pressante, opprimente, palpabile drammaticità ne fa un’opera capace di travalicare gli angusti limiti della forma-canzone, un lavoro la cui ragion d’essere lo rende forse ingiudicabile, ma non ne preclude l’accesso alla statuaria bellezza che lo innerva né alla insistita richiesta di pacificazione dalla quale è animato. Nel 2014, proprio lo stesso giorno in cui se ne andava Enrico Fontanelli degli Offlaga Disco Pax, il cancro si è portato via anche mio padre, ma purtroppo io canzoni non so scriverne più. (Manuel Maverna)