CRIMINAL PARTY  "La revolution bourgeoise"
   (2017 )

La sola cosa di cui mi rammarico ascoltando questo album è che sia stato pubblicato nel 2016, e che tra un anno esatto da oggi non potrò includerlo nella lista dei migliori dischi del 2017: per il resto, “La Revolution Bourgeoise” è un lavoro impulsivo, essenziale, straordinario nella sua suggestiva riproposizione di una musica sì atavica e viscerale, ma estremamente vitale nella smaniosa ruvidezza che la anima. Forse risorti, forse mai morti, i Criminal Party da Palermo rappresentano uno di quei piccoli tesori nascosti che senza preavviso riemergono talvolta dalle pieghe del tempo. Nati trent’anni fa dalla mente di Fabio Vinciguerra e scioltisi poco più tardi, si riformarono dopo lunga pausa, pubblicando nel 1999 il primo album ufficiale, preludio ad un nuovo split nel 2001. Rinati dalle proprie ceneri con una nuova line-up, nel 2013 pubblicano “Votate me”, ep di cinque brani in italiano con Sandy alla voce solista. Oggi ricompaiono come il fantasma della baronessa di Carini portando in dote due nuove vocalist (Lisjac e Vicky Jam) e diciannove brani tra originali e bonus track (pregevole la riedizione della “1986” degli esordi), questa volta tutti in inglese, scelta condivisibile. Fra le ombre lunghe di Exene Cervenka, mr. Osterberg, addirittura Chrissie Hynde e – per restare ai nostri lidi – di Not Moving, il sestetto non rinuncia alla consueta dose di velenosa invettiva a sfondo socio-politico, infilando una serie impressionante di sassate garage veementi e sostenute: in un’ora di brani secchi e concisi, frenetica sequenza di 4/4 dritto-per-dritto spesso virati in minore ed affidati ad un canto asciutto e frontale, va in scena un’incessante sarabanda di chitarre in overdrive, brevi assoli brucianti (“Join us!”, “Wasted life”, “1986”), ritmi incalzanti che sorreggono e sospingono ampie armonie verso chorus anthemici di matrice tipicamente punk (“Rebel world”, “Dangerous mind”, con un basso tellurico), ma impreziositi e smorzati da una vena squisitamente melodica (ancora “Wasted life”, col suo drammatico messaggio). In cotanta ricchezza d’intenti trovano spazio accenni di oscuro tribalismo pow-wow (“Crime after crime”, quasi la mrs. Susan Janet Ballion d’antan), schegge boogie ed intarsi post-surf (“Politics in love, “Burned Generation”, “We Hate You”), twist deviati (“Assault At The Central Bank”), perfino ossessive divagazioni rumoriste dilaniate da strati di feedback (“Deep Crises”) in un modernariato di classe sopraffina, un lusso di questi tempi. Non c’è una forzatura, un passo falso, una traccia meno che basilare: l’incrollabile autenticità che traspare dalla scrittura urgente di ciascun episodio rappresenta la sublimazione di un’opera che costituisce un risveglio clamoroso ed inaspettato fino alla prossima mutazione, fino - magari - alla prossima resurrezione. (Manuel Maverna)