PAOLO CONTE  "900"
   (1992 )

C’è una fetta di Novecento che compete “di diritto” all’arte di Paolo Conte, e va più o meno dall’inizio del secolo a qualche anno dopo l’ormai epico ’46, immortalato nella “Topolino amaranto”. Un’epoca indefinita e magica, “intravista nel bagliore bianco che spara il lampo di magnesio…”, che nessuno come questo grande poeta nostalgico sa far rivivere in versi e musica. Attenzione alla parola “nostalgico”: in tempi di revisionismo strisciante è sempre bene precisare. Il Ventennio si trova proprio al centro di questo periodo, ma nelle nitide fotografie musicali in bianco e nero di “900” non troveremo traccia né delle “magnifiche e progressive sorti dell’Impero”, né del Testa di Morto, né tanto meno dei suoi gerarchi. C’è invece l’ingenua operosità delle donne che cuciono gli spolverini con le vecchie Singer, c’è lo stupore dei ragazzi che, arrampicati sui ciliegi, osservano come un prodigio scintillante un aeroplano, all’epoca raro. C’è la vitalità e la fierezza di una nazione che si contentava di poco, della propria tecnologia nascente esaltata dal futurismo, dei “grossi motori entusiasmati” che visti con gli occhi attuali fanno un po’ tenerezza. C’è anche una fiducia sconfinata nel futuro, che pure sta per presentare un conto salatissimo, ma per ora nessuno ci pensa. Non è facile rendere tutto questo in musica, ma Paolo Conte ci riesce da maestro, usando il suo linguaggio preferito, il jazz. Sì, proprio quella musica che il regime bandiva perché “americana” e, peggio ancora, “negra”. Come mezzo per rappresentare lo stato d’animo di quei tempi il jazz si rivela migliore delle pur splendide immagini dei filmati dell’Istituto Luce, e forse anche migliore delle leggendarie copertine della “Domenica del Corriere”. E dove non arriva il jazz arrivano i testi: guarda caso la lirica più densa di rievocazioni è quella di “Novecento”, una specie di valzerino che non stonerebbe suonato da un organetto di Barberia: si gira la manovella e le scene dei tempi andati si susseguono. Anche “Pesce veloce del Baltico” è un episodio particolare: qui il compito di portarci in un triste e fatiscente albergo per commessi viaggiatori è affidato al dialogo intimo tra la voce sempre più rauca di Paolo Conte e le note del suo pianoforte. L’ossessivo “da-dam, da-dam, da-dam…” sembra accompagnare la pioggia che cade e non smette più… Ma per il resto è il jazz a dominare, e nelle forme più svariate: “Gong-oh” richiama “il fantasma di Chick Webb”, che non si fa pregare e puntualmente appare in questa deliziosa ricostruzione di uno swing anni ’30. Anche “Brillantina bengalese” riporta a quei tempi, ma in questo caso con Paolo Conte nei panni di un virtuoso e ironico Fats Waller. Ritmi più lenti e più elaborati, sempre di matrice jazzistica, a volte fusi con altri di origine sudamericana, si trovano in “Una di queste notti”, “Il treno va” (bellissimo vibrafono), ”La donna della tua vita”, “Schiava del Politeama”. Momenti più riflessivi, di grande dolcezza, sono “I giardini pensili hanno fatto il loro tempo”, in cui già il titolo è quanto di più contiano può esistere, e “Per quel che vale”, un amaro mugugno, espresso quasi controvoglia, a singhiozzi, sull’inutilità (apparente) della vita d’artista. In questi ultimi brani è il suono brillante e deciso del pianoforte di Paolo Conte a fare la parte del leone. Ancora ritmi jazz, ma stavolta al rallentatore, in “Chiamami adesso”, mentre “Inno in re bemolle” ha un incedere maestoso, ma non abbastanza da coprire la raffinata trama di un ritmo di bolero. C’è poco da aggiungere: è un disco di godimento assoluto, che rasenta la perfezione, e allo stesso tempo è la dichiarazione d’amore più completa di Paolo Conte per la sua epoca ideale. (Luca "Grasshopper" Lapini)