VOLCANO HEAT  "Black mood swings"
   (2017 )

Non sempre tocca necessariamente inventare o sperimentare per sorprendere. Sferzante e impetuoso, spinoso e sovraesposto, “Black Mood Swings” è il nuovo lavoro dei Volcano Heat, trio veneziano attivo dal 2008 titolare fin qui di un album (“Vive Le Rock!”, 2011) e di tre ep sparsi negli anni. Prodotto con Alex Marton per First Line Production, “Black Mood Swings” raccoglie dodici tracce di tenace intensità, altrettanti assalti all’arma bianca nei quali confluiscono elementi estrapolati da innumerevoli correnti e sottogeneri di un passato non remoto, ma vivificato da una serie ininterrotta di ritmiche serrate, elettricità satura e tonalità spesso volte in minore (“Plastic world”, quasi dei Dandy Warhols meno accomodanti) in un tour-de-force chitarristico che non conosce requie o flessioni. As usual, it’s only rock’n’roll: senza divismo, eccessi, fronzoli né machismo di sorta, mai sbracato né irriverente – al contrario: centrato e bilanciato - il trio inscena un carosello di aggressiva sfrontatezza aperto dal programmatico boogie assassino di “The way I am” e via via ingigantito nel suo cadenzato sferragliare da accenti brit (la più ragionata “Feeding the crow”, l’eco Franz Ferdinand di “State of love”) e da un impiego ricorrente di riff, fraseggi inaciditi, rigurgiti di violenza a stento trattenuta. Ondeggia marziale fra Billy Idol e Strokes il mid-tempo incattivito di “Return to splendor”, indugia ad un passo baggy da Killers “Live forever”, scossa da un’improvvisa accelerazione che ne sovverte l’andatura, scherza su un provocante registro glam “Someone else”, impreziosita da un intervento nevrotico del sax, diviene stonesiano l’indemoniato ingorgo di “Another shot”: sassate di inesauribile veemenza lanciate in rapida successione senza oasi di pace alcuna, una sequenza stordente che riluce per la purezza degli intenti e per la coesione stilistica che ne cementa l’humus. Quando per pochi istanti, sulla ballata pur spinta di “World’s Forgotten Boys”, la tempesta pare sedata, e prima del breve commiato psichedelico di “Twilight”, i tre trovano ancora il tempo per vergare il manifesto di “Destroyer”, raffica luciferina che mitraglia impietosa, si placa, esita, lievita in un bailamme omicida sventrato da un basso tellurico e da parossistiche urla mansoniane, collassa infine in un frastuono belluino. E’ forse il vertice emozionale – psicotico e virulento - di un album prorompente per efficacia e vigoria, disco che mantiene intatta la propria feroce lucidità mai rinunciando a perfezionare trame in continua, strabordante deflagrazione. (Manuel Maverna)