BRUCE SPRINGSTEEN  "Hammersmith Odeon London ‘75"
   (2006 )

Il mondo si divide in due parti: chi ama Springsteen e chi non l’ha mai visto dal vivo. Ma fino ad oggi l’espressione live del Boss non era mai riuscita a essere degnamente immortalata su disco. A porre rimedio a questa lacuna, cui hanno sopperito nel corso degli anni miriadi di bootleg avidamente consumati dai fan, ci pensa ora questo "Hammersmith Odeon London ‘75", cronaca fedele di uno dei concerti storici del primo Springsteen. Ecco quindi emergere dagli archivi il primo concerto di Springsteen nel Vecchio Continente, ospitato dal teatro Hammersmith Odeon di Londra e già allegato in versione Dvd, al cofanetto celebrativo per il trentesimo anniversario di "Born To Run". È la fine del 1975 quando Springsteen e la E Street Band sbarcano a Londra: "Born To Run" ha fatto solo da qualche mese la sua comparsa nei negozi di dischi e Bruce è appena finito contemporaneamente sulla copertina di "Time" e di "Newsweek". È uno Springsteen quasi intimidito quello che si presenta solitario davanti al microfono, con una giacca di pelle e un cappello di lana calato sul volto, incorniciato da un’ispida barba scura. Ma la sua voce carica di lirismo acquista lentamente vigore, mentre le note del pianoforte di Roy Bittan s’innalzano come un carillon doloroso. "The screen door slams / Mary’s dress waves". È una rarefatta "Thunder Road" ad accogliere la platea londinese, affidata solo al piano e alla voce, come quella contenuta nell’antologia "Live 1975-1985". Poi entra in scena la E Street Band al completo, con la sua pittoresca immagine che sembra venire da una scena de "Il padrino", e subito la contagiosa energia targata Stax di "Tenth Avenue Freeze-Out" rende incandescente l’atmosfera. Prima degli stadi, prima del successo planetario, prima di diventare il Boss, lo Springsteen del 1975 è ancora quel futuro del rock ‘n’ roll preconizzato da Jon Landau e la sua musica è un orizzonte selvaggio fatto di strade senza fine, alla ricerca della terra promessa. Sul palco londinese i brani si dilatano all’inverosimile, superando i 17 minuti nella torrenziale jam session jazzistica di "Kitty’s Back". Le chitarre di Bruce e Little Steven si intrecciano roventi, unendo Chuck Berry, Stones e Who in un’unica, esplosiva miscela, mentre il sax di Clarence Clemons colora di r’n’b la festa. Come nell’iniziale "Thunder Road", Springsteen recupera le radici folk-rock degli esordi anche nell’essenzialità struggente di "Lost In The Flood" e "For You", lasciando che la sua vena più romantica venga carezzata dalla fisarmonica che il tastierista Danny Federici imbraccia in "4th of July, Asbury Park (Sandy)". Ma dal momento in cui Bruce impugna la sua leggendaria Fender Telecaster in "She’s The One", a dominare la scena è il roccioso wall of sound spectoriano di "Born To Run", che raggiunge l’apice in inni come "Jungleland", "Backstreets" e "It’s Hard To Be A Saint In The City". E per il gran finale, dopo la spensieratezza adolescenziale di "Rosalita (Come Out Tonight)", ecco l’immancabile omaggio alle scintillanti oldies da juke-box anni Cinquanta, prima con "Detroit Medley" di Mitch Ryder, che inanella in fulminante sequenza "Devil With A Blue Dress On", "Good Golly Miss Molly" e "Jenny Take A Ride", e poi con la sarabanda di falsi stop di "Quarter To Three". Insomma, "Hammersmith Odeon London ‘75" è davvero una documentazione imprescindibile dell’energia sprigionata sul palco da Springsteen e dalla E Street Band, più dell’ambizioso ma frammentario "Live 1975 — 1985", più dello scialbo "In Concert: Mtv Unplugged" e anche più di "Live In New York City", che nonostante la sua forza fotografa pur sempre un Bruce ormai ultracinquantenne. (Lorenzo Bazzani)