GIORGIENESS  "Siamo tutti stanchi"
   (2017 )

Le ho voluto bene non poco, e gliene voglio ancora. Il tratto che più mi aveva impressionato di Giorgia D’Eraclea, quando circa un anno e mezzo fa pescai il suo album di debutto - non per caso, e me ne vanto ancora - nel mazzo di quelli da recensire, fu la detonante miscela di irriverenza furbetta, giovanilistica sfrontatezza, rude incoscienza, urgenza espressiva ed un filo di violenza sul punto di deflagrare. Mi diede emozioni ruvide, la biondina, anche un po’ dirty alla mia non più verde età: perché “La Giusta Distanza” offriva spunti, stimoli, vie d’uscita, idee, ipotesi di sviluppo. A condire il tutto, una sana cattiveria da lolita sbagliata e impertinente. In fondo all’anima covavo un timido interrogativo, che la signorinella pallida potesse essere non un bluff di facciata, quanto piuttosto un oeuv foera del cavagnoeu: in milanese, dicasi di qualcosa di eccezionale, nel senso di estemporaneo, episodico, occasionale, non destinato a ripetersi. Ma il secondo album è sempre il più difficile nella carriera di un artista, e così il giorno che te lo ritrovi per le mani un minimo di apprensione – si fa per dire, eh? – c’è. Ecco: quella che da lì in avanti per poco più di mezz'ora si offre agli astanti in esangui canzoni anoressiche è già una nuova Giorgia, nemmeno il tempo di godersi la vecchia. Pacate e sornione nei suoni, che improvvidamente abbandonano di colpo l’ingenua irruenza dell’esordio (ma perché?) per farsi più riflessive (ma perché? Spacca tutto, gioia bella, ora o mai più…), le dieci tracce di “Siamo Tutti Stanchi”, su etichetta Woodworm con la produzione di Davide Lasala, arrivano trattenute, misurate, smorzate, quasi addomesticate, riallineate, ricondotte nei ranghi. Canta bene Giorgia. Anche troppo per parole intrise di un intimismo problematico forse inadatto a lasciarsi raccontare da una vocalità tanto pulita. Musicalmente, “Siamo Tutti Stanchi” è tutto ciò che “La Giusta Distanza” non era, e non fa più male, ahimè. Non bastano un paio di parolacce in “Che Cosa Resta” per scrollarsi di dosso così tanti dubbi da rischiare il naufragio nel mare magnum dell’anonimato omologato; non basta l’apertura gelida – bella l’idea, ma implode raggomitolandosi su sé stessa – di “Avete Tutti Ragione”; non bastano i demoni personali che si rincorrono – affatto pacificati - in un diafano downgrade del sabba perverso dell’altro ieri; non bastano le stuzzicanti intuizioni che avrebbero ingigantito “Umana” (acustica, scarna e agonizzante) e “Mya” (un’infernale cadenza rallentata) per risollevare l’appeal di un album che nasce forte e si ridesta debole dopo la sbronza della sera prima. Perché mentre provo a cercare la scintilla che non arriva nello sviluppo di “Calamite” o nel torbido di “Controllo”, non posso scordare il trittico spaccaossa che apriva “La Giusta Distanza”, roba che ti schiacciava la schiena contro il sedile come sull’ottovolante, facendoti urlare mentre ne chiedevi di più. Sarà una questione di contenuti, di rabbia ingoiata, di arrangiamenti, di produzione, di chissà cos’altro, ma l’impressione è che qualcosa anziché esplodere e consacrarsi si sia inceppato ad un metro dal traguardo, soffocando in una precisione convenzionale e composta la primigenia velleità di mordere, graffiare, sbraitare, lottare. Di quella Giorgia c’era un gran bisogno, di questa non saprei dire. Seguimi/ma io non so la strada, canta in “Umana”: fedele alla linea, io ho deciso di seguirla comunque, ma ora come ora è una scommessa molto azzardata. (Manuel Maverna)