GALAPAGHOST  "Pulse"
   (2018 )

Ora vi dico perché “Pulse”, del quale qui brevemente si discorre, è l’album della settimana: in primis perché non delude mai, e poi perché sa fare benissimo ciò che si prefigge. Terribilmente basilare come motivazione. Non facile riuscirci, invece. Intanto, giunto al quarto album Casey Chandler sembra aver deciso cosa fare da grande. A due anni da “I Never Arrived”, il songwriter originario di Woodstock, NY, oggi residente ad Austin, Texas, sceglie nuovamente la via dell’autoproduzione. Già nel recente passato artisticamente e professionalmente legato all’Italia (i primi due album – “Runnin’” del 2012 e “Dandelion” del 2013 - furono pubblicati per la piccola etichetta Lady Lovely), Casey si avvale ancora per “Pulse” della collaudata collaborazione di Federico Puttilli (Nadàr Solo, Levante), rimanendo fedele a sé stesso nel solco di un folk ben prodotto, magari lineare, ma pulito e divinamente scritto. Si muove in una comfort-zone ampia e consolidata, strizzando l’occhio in varie direzioni. Ha un bel timbro, stentoreo ma levigato, una di quelle belle voci da americano-con-la-chitarra, unita alla spiccata tendenza – da bravo texano acquisito – a virare spesso e volentieri verso tonalità maggiori. Soprattutto, sa dotarsi di un atout che non guasta mai: ha buone canzoni, magari non pezzi assassini, ma di quelli che si lasciano ascoltare senza fare troppo male, azzeccando ganci ed eleganti scappatoie. Nella prima parte “Pulse” si mantiene con scioltezza e relativa facilità sempre ben al di qua della larghissima sufficienza, con le sue ballate più o meno briose (“The American Dream”) o laid-back (“Woke Up On The Wrong Side Of Earth Today”), a seconda dell’estro del momento. Sempre senza esagerare, ma senza mai bluffare o annoiare, spingendosi con baldanza in una title-track che apre su un’aria da James Blunt intristito o cimentandosi – misurato, intrigante - nella cristallina torch-song di “Jim Beam”. E fin qui parliamo di un buon disco. Poi, all’improvviso, “Pulse” impazzisce, andando a parare dove mai ti aspetteresti. Ad iniziare da “Saudade (Interstate Death Song)”, specie di alt-country composto e squadrato, cadenza pigra e sorniona al crocevia tra i 2-accordi-2 dei Jesus & Mary Chain, la slackness dei Pixies di “Bossanova” e i Creedence meno acidi; proseguendo col rallentamento spettrale à la Wovenhand di “Holy Moly” e con l’arpeggio da murder-ballad nickcaveana della successiva “Obidos”. Chiude l’album l’autobiografica “Pinerolo”, sorta di personale “The Road” giocata sul filo dell’emozione per dolci ricordi di inizio carriera: Casey la porge sì aggraziata e suadente, ma la nasconde filtrando la voce e seppellendola in una coda avulsa e slegata fatta di disturbi, effetti, piccole increspature. E’ il suggello imprevedibile ad un lavoro di brillante semplicità, espressione di un autore che continua con fiducia incrollabile a proporre la sua musica signorile, pura, garbata. (Manuel Maverna)