FELPA  "Tregua"
   (2018 )

Sviscerando le canzoni degli Offlaga Disco Pax, alle spalle del salmodiare arcigno e sarcastico di Max Collini emergono trame ricche di una melodiosità mai relegata al solo ruolo di supporto. Sono spesso ricami non invadenti che contribuiscono ad ammantare i brani di un fascino che travalica il mero elemento narrativo. Se il re nell’equilibrare i suoni era il compianto Enrico Fontanelli, le armonie docili ed eteree che fungevano da collante erano opera (anche) di Daniele Carretti, suonatore di corda amplificata e delizioso, defilato troubadour introverso la cui carriera solista sotto il moniker Felpa risale a ben prima dell’esordio di “Abbandono” (2013), raccolta di appunti di vita scritto tra il 2010 ed il 2012. Realizzato ancora una volta in perfetta solitudine, “Tregua” funge da ideale suggello alla trilogia incentrata sull’esplorazione di un microcosmo di sfuocati demoni personali, lavoro a suo modo vibrante e passionale che replica a tre anni di distanza la cristallina bellezza di “Paura” riproponendone le atmosfere sospese, immancabilmente velate da una insopprimibile melanconia di fondo: piccole storie nobili di raccolto intimismo rivivono in uno spleen avvolgente à la Belle And Sebastian, offerte per il tramite di una espressività confessionale dipanata in otto tracce di impalpabile, sopraffina, aggraziata mestizia. Otto acquerelli in minore colorati a tinte tenui da chitarra distillata e note sgranate, da un pulsare carezzevole di bassi suadenti, da misurati interventi di elettronica minimalista; altrettante facce di uno stesso, comune sentire punteggiato di schizzi, accenni, bozzetti ermetici intrisi di una non dissimulata tristesse che tutto permea e domina. Tre episodi strumentali - l’opener “Svegliarsi”, la speculare “Dormire” in chiusura e l’intermezzo di “Onde” - fungono da tessuto connettivo per languide ballate rallentate (“Distante”, quasi i Verdena più docili) che si concedono a non infrequenti aperture shoegaze (“Ancora”, che dilaga elettrica nel finale), indulgendo talora ad un ciclico fluire capace di innalzarsi fino a vette di romantico trasporto mai melenso né ridondante condensato in chorus di efficace compostezza (“Polare”, “Ascoltare”). Dischi così vivono e si insinuano in anfratti reconditi della mente, dell’anima, di chissà cosa; sono morbidi, accoglienti come una coperta d’inverno, non colonizzano il tuo spazio, semplicemente ti si accoccolano accanto come un gatto sul divano. Restano lì a cullarti, ripetendo intatta ed immutata la loro litania, come fosse un mantra. Certi dischi non si discostano dall’idea che portano in dote, quasi non intendessero disturbare. Non chiedono soverchi sforzi di comprensione: soltanto, ti invitano a lasciar (s)correre tutto, gentili e rispettosi. Questione di garbo, di fiuto, di saper trattare certi sentimenti con la naturalezza che viene dal profondo. Silenziosamente. (Manuel Maverna)