FRANCESCO GUCCINI  "Signora Bovary"
   (1987 )

Confezione di lusso: tra quel velluto rosso e le scritte dorate, praticamente illeggibili nel CD, pare di aprire una scatola di cioccolatini. E l’interno non delude: finalmente, e proprio da questo disco, l’ormai maturo Guccini dimostra definitivamente che si può essere al tempo stesso “burattinaio di parole” (autodefinizione sua) e discreto musicista. Dico definitivamente perché di canzoni azzeccate musicalmente se ne trovano fin dai primi dischi, ma qui colpiscono anche la cura degli arrangiamenti e la raffinatezza di certe soluzioni. Grande merito va anche all’ormai affiatatissimo gruppo che lo accompagna quasi da sempre: gente come Ares Tavolazzi, Ellade Bandini, Vince Tempera e altri prima o poi fa sentire il proprio peso, con buona pace degli arrangiamenti “naif” anni ‘70 di quell’arruffone di Pier Farri. Al nucleo ormai storico qui si è unito l’egregio sassofonista Antonio Marangolo, ma è Juan Carlos “Flaco” Biondini ad imporsi, non solo come grande chitarrista, ma anche come coautore in “Scirocco”, splendido tango di indubbio sapore piazzolliano, con tanto di bandoneon in bella evidenza, il tutto a valorizzare il bellissimo testo, guccinianamente teso a scoprire cosa c’è “dietro la faccia abusata delle cose, nei labirinti oscuri delle case, dentro lo specchio segreto di ogni viso, dentro di noi”. La stessa eterna domanda, da sempre spina nel fianco di Guccini, si ripete ossessivamente in “Signora Bovary” : “Ma che cosa c’è… proprio in fondo in fondo, quando bene o male faremo due conti…”. La risposta ovviamente rimane sospesa, e forse è nel vento, come ha detto qualcuno. “Van Loon” è così commovente che Guccini ha dichiarato di non riuscire a cantarla nei concerti, dal momento che è dedicata e riferita a suo padre, uno di quegli uomini di modesta estrazione e cultura di una volta, con pochi mezzi ma una grande sete di conoscenza, che all’epoca si poteva soddisfare attraverso i libri di divulgazione scientifica di questo olandese, che lo stesso autore definisce “una specie di Piero Angela dei suoi tempi”. Per l’ascolto si consiglia l’uso di uno o più fazzoletti, ma è bellissima. Stesso discorso per “Keaton”, scritta insieme a Claudio Lolli, e già questo è garanzia assoluta che non si ride. Ben 11 minuti per una doppia canzone: la “prima” Keaton è la storia di un amico jazzista “appassionato e puro”, e quindi perdente, destinato prima a scomparire e poi a scivolare verso altri mondi (“ci son parole, tempi e ritmi anche dentro un ospedale”); la musica fa un po’ l’occhiolino al jazz, ma i brividi sono in agguato, e ci aggrediscono nella “seconda” Keaton, quasi un lampo, un’apparizione del vero Keaton, intravisto ormai distrutto dall’alcool durante le riprese di un film di Franchi e Ingrassia (“la faccia, la solita, senza allegria”). Si consiglia di riprendere i fazzoletti già bagnati con “Van Loon”, e nel frattempo asciugati grazie a “Culodritto”, uno sguardo verso il futuro, visto attraverso gli occhi della figlia, così chiamata per il suo tipico modo di camminare impettita, ma anche uno sguardo indietro ai ricordi d’infanzia di Guccini, così indelebili e vivi da occupare in pratica l’intero primo romanzo gucciniano, “Croniche Epafàniche”. Cose che la figlia non potrà mai avere, come le “risse terrose di campi, cortili o di strade” o “il sapore dell’uva rubata a un filare”. Di ricordi abbonda anche “Le piogge d’Aprile”, quelle che “in un attimo lavavano un’anima o una strada” e che ora sono attese con ansia “come uno schiaffo improvviso” per ricominciare a vivere in modo più vero. Di “Canzone di notte n° 3” (ultima della serie, almeno per ora) basta citare l’inizio: “Esistenza che stai qui di contrabbando”, che è sintomatico di tutto il resto. Come le altre due, nasce dalle proverbiali “sbornie riflessive” gucciniane. E così, lasciandoci in questa alcoolica ma lucida angoscia, si chiude quello che per me rimane il capolavoro della maturità di Guccini. (Luca "Grasshopper" Lapini)