LOREENA MC KENNITT  "Lost souls"
   (2018 )

Confiteor: provo nei confronti di Loreena McKennitt un minimo di timore reverenziale.

Più che altro, è una forma di rispetto. Una sorta di apostolica devozione nei confronti di un’artista che ha attraversato indenne – anzi, trionfale – gli ultimi trent’anni di musica conservando intatta una fede incrollabile nel suo punto di osservazione così altero, distante, eletto.

Vestale della musica celtica sdoganata per le masse, Loreena - singolare compositrice, musicista e chanteuse canadese – si è sempre mossa sul filo sottilissimo che separa tradizione popolare di ascendenza colta e fruibilità destinata ad un pubblico più ampio; mai così impervia da suscitare rinuncia, ha saputo reinventarsi insinuandosi cortese fra i meandri di una musica tanto languida e flessuosa da potersi far strada fra le strette maglie del gradimento, pur muovendo da una prospettiva eminentemente colta, dotta, elitaria.

Pubblicato come di consueto per Quinlan Road, etichetta di sua proprietà, “Lost Souls” giunge a ben dodici anni da “An Ancient Muse”, ultimo lavoro di studio composto da soli inediti, considerato che sia “A Midwinter night’s Dream” sia “The Wind That Shakes The Barley”, rispettivamente 2008 e 2010, contengono in prevalenza materiale non originale.

Il retaggio della tradizione rimane arginato a pochi episodi (lo strumentale “Manx Ayre” in primis), giocoforza e sorprendentemente quasi avulsi da un contesto cui Loreena dona tratti distintivi di cristallina unicità, serbando nelle liriche l’autenticità ancestrale del suo intimo percorso di atavica purezza.

Come avesse coniato un linguaggio a tal punto personale da non poter essere confuso né con la pedissequa imitazione di sé stessa né tantomeno con una cervellotica divagazione manieristica e scolastica, Loreena modella il suo primigenio folklore etnico ottenendo qualcos’altro: non pop raffinato, non ricercatezza autoreferenziale, bensì materia sonora plasmata fino a divenire riconoscibile, definendo uno stile che ella stessa ha creato.

Pervaso da una malìa profonda e antica, “Lost Souls” intreccia suggestioni mediterranee (“Spanish Guitars And Night Plazas”), arie mediorientali (il brioso strumentale di “Sun, Moon And Stars”) e carezze di tenue bellezza (“La Belle Dame Sans Merci”) che si susseguono morbide e confortanti mentre narrano di tempi lontani e sentimenti immarcescibili in un linguaggio di raffinata eleganza.

Su questi quarantotto minuti di limpida beatitudine in minore riecheggia prepotente, eppure garbato e flautato, il soprano di velluto di Loreena, a tal punto umile da rinunciare a prendersi tutta la scena, limitandosi altresì – stentoreo, mai rinunciatario – ad incorniciare partiture palpitanti, venate di quella melanconia che da sempre ne riveste le trame e ne impreziosisce le tessiture. Mai eccedendo laddove potrebbe, nobilita dettagli fino a dotarli di vite proprie, come nella linea pianistica che conduce “A Hundred Wishes” ad inusitate altezze di varia poeticità; o nel tripudio di archi che agita “Ages Past, Ages Hence” lasciandola planare addirittura dalle parti di Tori Amos; o ancora nell’afflato quasi mistico che avvolge il climax da parata di “Breaking Of The Sword”, abbraccio corale che abbevera l’anima conducendola all’epilogo dimesso della title-track, forse il commiato migliore, certo il più adatto alla compunta mestizia di un album gentile come una mattina di primavera.

A sort of homecoming, un ritorno alla natura delle cose, all’essenza del cosmo, a qualcuno che non c’è più, chissà: “The journey’s over, another’s just begun/beneath moonlight or by the warming sun/for I remember that if my heart be true/just like an eagle I’m coming home to you”.

Bentornata Loreena, so long. (Manuel Maverna)