RADIOHEAD  "Ok computer"
   (1997 )

Stiamo parlando di un album fondamentale degli anni ’90. Questa prima premessa, da sola, dovrebbe già bastare per cercare di spiegare la portata della musica prodotta da Thom Yorke e compagni nel 1997, anno della realese. Il gruppo inglese stava progressivamente arrivando al vertice creativo ed artistico. Dopo aver pubblicato con “Pablo honey” un onesto debutto (ma niente di miracoloso, se si eccettua il super singolo “Creep”) e aver dato alle stampe l’ep “My iron lung”, i Radiohead vivevano, tra il 1995 e il 1997, uno stato di grazia mai più raggiunto e, probabilmente, raggiungibile. Dapprima usciva “The bends” che costringeva il mondo della musica a prendere coscienza di un lavoro assolutamente impeccabile e struggente, fatto di essenzialità rock e combinazione tra chitarre elettriche ed acustiche. Più di una canzone contenuta in “The bends” potrebbe trovare accoglimento in qualsiasi funerale disperato, nel quale padrone di casa devono essere tristezza e sofferenza, nobilmente interpretate dall’inconfondibile voce di York. Ma, dopo due anni, il gruppo riesce a rielaborare la musica di “The bends” e renderla ancor più incisiva ed elettronica; a tratti quasi avanguardista e futurista, quel tanto da far gridare in molti i “Nuovi Pink Floyd”. È ancora rock, ma si sente anche l’odore di qualcosa di diverso. È, probabilmente (e almeno per loro), la chiusura di un capitolo e, non necessariamente, la riapertura di un capitolo successivo. “Airbag” apre con sonorità già care agli album precedenti anche se il suono caldo e avvolgente annuncia un’intenzione maggiormente elettrica che si manifesterà totalmente dalla seconda traccia. Con “Paranoid android” i Radiohead raggiungono l’apice espressivo ed il loro momento artisticamente più complesso; sono ben riconoscibili diversi stati emotivi e tendenze nell’interpretazione del brano. Ad un intro quasi acustico, segue un crescendo di elettricità che raggiunge livelli mai toccati in precedenza, facendoci immaginare ipotetiche strade del futuro, percorse da personaggi perennemente malinconici (…“You don’t remember-why don’t you remember my name?…”). “Subterranean homesick alien” è un intermezzo parlato da una voce monocorde e vuota che sembra quasi utilizzato per far prendere fiato all’ascoltatore. “Exit music” continua la linea musicale di “Paranoid android” e riprende il sound ultra addolorato di “The bends”. È dolore puro, trasmesso con crescente intensità attraverso un massiccio ingresso delle tastiere. Passando dalla morbida ballata di “Let down” si arriva a “Karma police”, altro momento topico, sia artisticamente sia commercialmente. Accompagnato da un video di impatto, dove una macchina fantasma rincorre una vittima indifesa (che, comunque, alla fine avrà la meglio!), il singolo si presenta un po’ come la summa dell’intera Radiohead opera; la voce strascicata di Thom York, le chitarre elettriche sempre in primo piano e una batteria fin troppo gentile, riescono a raggiungere le orecchie di tutti e balzare tra i primi posti delle classifiche mondiali. Dopo averci regalato l’ottimo momento rock di “Electioneering” e la dolcissima “Climbing up the wall”, con “No surprises” i Radiohead abbandonano temporaneamente l’elettricità e, staccando la corrente, concedono un altro grande singolo, anch’esso seguito da un video di forte suggestione, nel quale il cantante annega progressivamente durante l’esecuzione del brano… quasi a suggellare il pensiero espresso nel testo, dove tutto intorno a noi ci ignora o ci uccide a poco a poco e quindi… non allarmatevi, non stupitevi, questa è la fine! Fine che in realtà lascia spazio ancora ad un paio di ottimi brani come “Lucky” e “The tourist” che ripropongono le tematiche, sia musicali sia liriche, del computer cerebrale e distorto… facendoci approdare, attraverso l’audio del monitor, in un futuro dal quale troppo spesso ci sentiamo distrattamente lontani. (Silvia Campese & Gianmario Mattacheo)