THE YOUNG MOTHERS  "Morose"
   (2018 )

Come siamo messi a melting pot oggi? L'espressione, così tanto in voga nel XX secolo per descrivere il multiculturalismo degli Stati Uniti d'America (in particolare di New York), sembra felicemente descrivere il crossover di jazz, hip hop e noisecore che gli Young Mothers mettono in atto. Giunti al secondo lavoro, "Morose" (uscito per Super Secret Records) è un imprevedibile coacervo di stili, che si incontrano con una naturalezza impensata, anche se talvolta suonano come miele nel sale. Ad esempio, in "Black Tar Caviar" ascoltiamo inizialmente un assolo di sax particolarmente espressivo: piange, libero da armonizzazioni degli altri strumenti; viene accompagnato dalla sola batteria, in maniera regolare. Dopodiché, partono due distinte tracce sovrapposte: una è un groove di batteria e basso distorto, con un rap aggressivo dalla voce sdoppiata, e l'altra ha la voce in scream e la batteria da death metal! Le due tracce sono idealmente collegate dal solo di tromba e sax, che alternano un inciso melodico da fusion a parti dissonanti. La normalità è esclusa da questo disco, anche quando sembra far capolino. "Attica black" parte con una beatdrum dal classico loop campionato da hip hop... solo che è in 5/4. Il rap viene affiancato dal vibrafono in sapore lounge jazz, ma poi torna il noise, in cui litigano chitarra elettrica e tromba. Nel pezzo dall'inquietante titolo "Bodiless arms", il sax è di nuovo solitario, circondato da lontani sibili e lamenti di dolore. Poi la chitarra pulita avvia il riff, seguita da basso, vibrafono e batteria soffice con spazzole. Nonostante la morbidezza del brano, la paura non ci abbandona. Viene però sostituita da malinconia urbana in "Francisco", creata da sax e tromba, sopra l'unisono di vibrafono, chitarra e basso. "Untitled #1" è chiaramente un omaggio ai Naked City: un caos disorganizzato, tra urla di fiati, elettronica rotta e chitarra casuale, che funge da introduzione a "Jazz oppression", dove sax e basso fanno un riff rock. Il ritmo qui è dritto con cassa in battere, e la voce di Jawwaad Taylor alterna il rap normale a delle parti gridate. L'aggressione prosegue con la titletrack "Morose", alla quale partecipa anche il vibrafono con un'improvvisazione indiavolata. Altro strano incrocio è "Osaka", un 3/4 (più precisamente un 9/8 per come vengono gestiti gli accenti) dove, sopra ad un basso funereo, tromba e sax improvvisano assieme ai feedback di chitarra e ad elettronica da sci-fi, ma poi eseguono una musica mesta che pare imiti una via crucis del Sud Italia. "Untitled #2" riporta il caos al centro dell'attenzione, dove emerge il fatto strano che il batterista esegue rapidissime parti hardcore, con fusti chiaramente da jazz. Praticamente un barboncino che cerca d'abbaiare come un alano! Gli altri strumenti si lamentano forte, mentre rumori sintetici sporcano il tutto. Dopo tutte queste beffe sonore, sorprende che l'ultima canzone "Shangai" porti con sé una melanconica melodia cantata in tonalità minore, su una ritmica andante regolare di batteria elettronica e un andamento armonico quasi romantico. I suoni, seppur distorti, creano una situazione stranamente dolce, come quelle dei Radiohead. E qui spicca l'assolo del bassista Ingebrigt Håker Flaten, l'unico norvegese fra gli altri cinque che provengono da Texas, New York e Chicago. Con i Young Mothers abbiamo dunque un aggiornamento sul melting pot americano: sempre chiassoso e irriverente, sempre creativo e stimolante. (Gilberto Ongaro)