MARTYR LUCIFER  "Gazing at the flocks"
   (2018 )

Da antico amante del gotico, mi perdo gaudente nelle trame opache di questo disco sì infido, ma opulento, mesmerizzante, mistico nel suo incedere spettrale.

“Gazing At The Flocks”, terzo capitolo nella ben celata vicenda solista del vocalist Martyr Lucifer (già con Hortus Animae - progetto più orientato a sonorità metal - e Space Mirrors), regala una sottile ebbrezza, una malìa disturbante e profonda, ma soprattutto mostra al suo pubblico di adepti-in-nero come ancora si possa riuscire nella non facile arte di infondere linfa vitale in un genere di cui troppo spesso si è improvvidamente decretata la fossilizzazione.

Ci riesce con tocco magistrale questo oscuro cantore romagnolo, remiscelando il canone fino a stravolgerlo di continuo, contaminandone la primigenia struttura, dilatando il canovaccio in fogge inusitate: ideato come un concept di criptozoologia, assume a tratti la suggestiva veste di rappresentazione scenica in più quadri, ammantandosi di una teatralità fascinosa e contorta. La narrazione acquista un senso atavico, ancestrale, primitivo, un’ambizione all’universale che si staglia su un fondale lugubre, talora indugiando su stilemi più fedeli alla linea, altrove cercando vie di fuga.

“Gazing At The Flocks” regge il copione per cinquanta minuti senza ripetersi, senza scadere nel grandguignolesco o nel manierismo trito di cui il gotico rischia di esser preda, reinventandosi anzi grazie ad una scrittura ispirata, elegante, mai doma. “Veins Of Sand Pt.2” è costruita su un riff da Mission - o da primi Cult - e dispiega il suo 4/4 squadrato su un baritono catacombale; “Bloodwaters”, trafitta dalle rullate della batteria, è più elettrica ed aggressiva, addirittura grunge; a due voci “Leda And The Swan Pt.1”, quasi un synth-pop esaltato dal timbro angelico dell’artista ucraina Leìt e soffocato in una coda strumentale, preludio alla sassata di due minuti à la Bauhaus di “Wolf Of The Gods” ed all’incedere hard-rock di “Somebody Super Like You”.

Le ultime quattro tracce occupano poco meno della metà dell’album: lo caratterizzano, lo definiscono, lo inghiottono in un gorgo di afflizione morbida e straniante introversione. “Benighted & Begotten”, forse il vertice del lavoro, è una ballata dolente che si innalza su un’apertura maestosa ed un chorus di quelli definitivi, con la ripetizione finale - mantrica, disperata - che riecheggia incessante come nella “Something Fast” di Eldritch & co. (influenza enorme, a mio parere) su “Vision Thing”; “Spiderqueen” lievita su un imperioso crescendo fino alla saturazione del suono; “Flocks” offre a metà un inserto di elettronica subito fagocitato da un sabba torrenziale.

Ma è nella litania celestiale di “Halkyone’s Legacy, aka The Song Of Empty Heavens”, affidata ancora alla voce flautata di Leìt, che il rituale pagano si compie nella sua interezza, trovando sublimazione in una melodia ariosa e contrita, una melanconia composta e dimessa, un commiato che ha il suono del crepuscolo, di quando il sole si spegne poco a poco.

Una dissolvenza, un ingresso in punta di piedi nell’ennesimo cuore di tenebra. Exit, light, enter, night. (Manuel Maverna)