JACKSON BROWNE  "Late for the sky"
   (1974 )

In questi giorni sono affissi ai muri enormi colorati poster formato Berlusca con riassunto dei prossimi eventi musicali. Siccome li hanno fatti collettivi, con otto-dieci facce e date, può capitare di vedere fianco a fianco due facce che da sole danno un’idea dell’abisso tra i due personaggi: una è quella da merluzzo lesso (senza sale) di Max Pezzali, l’altra ha lo stesso sorriso triste e lo stesso caschetto (ora ingrigito) che Jackson Browne aveva 30 anni fa. Siccome questo sito tratta di musica e non di psichiatria, è di quest’ultimo che vorrei parlare. Confesso che non so nulla dei lavori recenti, quindi approfitto del trentennale e risalgo a “Late For the Sky”, per molti il suo capolavoro, ma anche un’opera assai discussa. Va detto che a metà anni ’70 molti critici, reduci dalla sbronza post-sessantottina, stroncavano ogni disco e ogni forma d’arte che deviasse appena dalla pura esaltazione della “rivoluzione” (non si sa bene quale). In Italia ne seppero qualcosa De Gregori e Guccini, che pure come si sa non sono certo dei pericolosi squadristi. Negli USA fu in particolare il povero Jackson Browne a beccarsi l’etichetta di “voce del riflusso”, solo perché preferiva trattare argomenti esistenziali piuttosto che politici… come se i sentimenti e le vicende individuali non si traducessero poi comunque in azioni politiche! Questa specie di bollo, di “lettera scarlatta” (tu sei “quello del riflusso”, vergognati!), relegò in secondo piano la sostanza, il valore di questo cantautore californiano, che non era solo la capacità di scrivere testi colti e raffinati, ma anche un’ottima inventiva melodica, necessaria per esprimere al meglio quello stato d’animo tra il sereno e il rassegnato, quel “sorriso triste” che prevale nelle sue canzoni. Per questo scopo potè giovarsi di solide basi musicali, date dal cosiddetto “West Coast sound”, quel genere di musica che si dice scateni nell’immaginario collettivo la sensazione di spazi estesi e deserti, con grandi strade senza fine dove si usano fare avventurosi viaggi, naturalmente facendo l’autostop. Al di là di questi luoghi comuni da film americano, sostanzialmente ciò si traduce in calme ballate, con limpide chitarre acustiche in evidenza, un po’ come nel country, ma senza la sua banalità e monotonia. Ogni tanto c’é qualche timida incursione nel rock, ma gentile, discreta, mai sopra le righe. Anche in questo, che è il disco più “suo”, Jackson Browne dà ampio spazio alla sua tranquilla malinconia, agli splendidi lenti, ai dolcissimi intrecci di chitarre e tastiere. E’ difficile trovare una canzone che si imponga, ma “Fountain Of Sorrow”, con il suo incedere che anticipa certi cristallini blues-rock dei Dire Straits, “For a Dancer”, con il suo struggente violino “fiddle”, che evoca profonde tristezze coheniane, la stessa “Late For the Sky”, con il suo pianoforte classico, e il lento maestoso finale “Before the Deluge” sono un gradino più su dell’ottima qualità media dell’intero album. Così però ho già citato mezzo album, quindi si fa prima a dire che la qualità si abbassa appena solo negli unici due brani velatamente rock: “The Road And The Sky” e “Walking Slow”. Non si può chiudere senza una citazione per la splendida copertina, con giochi di luce “alla Magritte”, ulteriore tocco di classe per uno splendido disco, molto rilassante eppure mai noioso. (Luca "Grasshopper" Lapini)