ISMAEL  "Quattro"
   (2018 )

E’ un fiume di parole “Quattro”, nuovo album per Macramè dei reggiani Ismael, creatura dello scrittore Sandro Campani oggi al nuovo capitolo della sua discografia a quattro anni dal precedente “Tre”.
Album venato di una tristezza più malinconica che afflitta, è un ricco abbecedario che impasta ricordi e sensazioni, dipinge scenari e rivanga il passato attraverso narrazioni dettagliate ed il colorito ritratto di figure che attraversano il palcoscenico della vita onuste di rimpianti e vicissitudini, ognuna col suo viaggio, ognuno diverso. Sorta di Spoon River in musica, incastrando frammenti ricostruisce la vita brulicante di una comunità che è la parte per il tutto, scava e ridisegna un’Emilia d’altri tempi sfregiata da una contemporaneità mal digerita.
Già, l’Emilia paranoica dei CCCP, terra devota sia al folk-rock d’oltreoceano che al cantautorato: sembra qui di vederla in tutto il suo vivido nitore, ma raccontata da un punto di osservazione differente e con un linguaggio che dice tutto anziché sottintendere.
Traboccante di storie e bella scrittura come forse oggi non si usa più, subito evoca nell’opener “E Dove Andrai, Luchino” – grazie anche al timbro vocale di Campani - il vate De Gregori: è una ballata piazzata tra la via Emilia e il West, tra gli episodi migliori di un disco opulento che vola alto quando più si discosta dal seminato per abbracciare nuove vie: “Canzone Della Vedova” velocizza l’andatura, la cupa “Il Nocciolo Della Questione” sembra citare (od omaggiare?) Cesare Basile e la sua unicità nel cantare la sporcizia dei bassifondi, “Canzone Dei Salici”, impreziosita da una bella armonica, tratteggia un folk sudista à la Van De Sfroos, corretto nel finale da una metrica del canto che ricorda perfino il salmodiare monocorde di Giovanni Lindo Ferretti.
Strano lavoro, “Quattro”: si lascia tentare da suggestioni indie senza mai cedervi del tutto, come se opponesse resistenza al suo stesso volersi svincolare dalla schematicità che si è autoimposto.
I pezzi funzionano, sebbene oscillino di continuo fra poli opposti: non abbastanza ruvidi per il rock, di cui non possiedono la cattiveria o la foga necessarie ad indurire ballate elettriche lanciate talora a velocità sostenuta (“Barbaj”); ma d’altra parte troppo elaborati per l’intimismo introverso che a tratti suggeriscono, e per nulla scanzonati come un folk godibile vorrebbe.
Disco comunque intrigante in bilico tra molte anime affatto inconciliabili, figlio di un progetto che potrebbe sorprendere e regalare grosse soddisfazioni se scegliesse definitivamente da che parte stare. (Manuel Maverna)