SAINT SADRILL  "Pierrefilant"
   (2018 )

“Pierrefilant” è un disco che fugge dalle etichettature. La mente di Antoine Mermet, accompagnata da una band di altri cinque musicisti, per la prima volta sotto il suo moniker Saint Sadrill, è assecondata nella sua fantasia creativa. Non riuscendo a trovare una definizione adeguata, si potrebbe accennare alla parolina magica prog, anche se qui forse sarebbe fuorviante (pensando soprattutto ai Chromb! di cui Antoine fa parte, e che ascoltandoli c’entrano davvero poco con questo). Ci sono elementi di psichedelica, di soul e di sperimentazione. L’Lp si apre con una suite di 11 minuti, avviata da singole note ripetute di vibrafono, e la voce di Mermet si presenta, qui come spesso altrove, sottoforma di cori. Il crescendo porta il pezzo a diventare un rock con assolo di sintetizzatore, e anche quando poi si calma rimane una tensione costante. “Corq” introduce, con un inizio di placido piano elettrico e vibrafono, un elemento sonoro ricorrente in questo disco: la dimensione fiabesca, che riecheggia lontanamente i primi Genesis. Anche la voce di Mermet a volte ricorda quella di Peter Gabriel, non per il suo timbro normale, che è ben diverso (meno graffiato), ma per certe interpretazioni teatrali in fase di… impazzimento, specie verso le note più acute. Ce ne dà un assaggio qui alla fine di “Corq” dove, dopo tre quarti di brano cantati con registro medio grave e tranquillo, prorompe in brevi urla. Questi scoppi vocali saranno ancora più lancinanti nel terzultimo pezzo di “Pierrefilant”, “Kiss song”, diviso anche questo in una zona calma con chitarra pulita, per un crescendo folle e drammatico dove siamo raggiunti da acuti isterici. Altre “fiabe distorte” sono “Building lampshades” e “To go to go to go”, dove i cori armonizzano in maniera insolita ed inquietante, e la melodia portante è a tratti quasi gotica, riferendomi con questo termine al binomio tra immagini e musica di Tim Burton e Danny Elfman. C’è un alternarsi fra zone di ninne nanne e zone ammiccanti al post rock. In “Zero” c’è una frase che potrebbe riassumere l’impressione del disco: “My heart goes weird”. Al centro di questo brano, la voce viene lasciata sola a risalire delle note, in una situazione febbrile, mentre Antoine parla di consapevolezza: “Now we know how we are”. Ed anche qui il vibrafono assume una funzione di straniamento, dialogando con impulsi sintetici. La struttura basata su due accordi di semitono di “Yar mum” è altrettanto conturbante, come il lungo pezzo “Blackstar” di David Bowie, dal suo omonimo ultimo album. La voce intesse un groove da sola nel silenzio, all’inizio di “We gave you a smile”, poi prorompe un rumoroso rock. L’arrangiamento - come ovunque ma particolarmente in questo caso - è oscuro e sperimentale, specialmente per via della chitarra. In “Little mountain”, una percussione costante come un metronomo, ci ossessiona accompagnandoci in un’altra fiaba gotica, mentre l’ultimo pezzo “Happy humans” è un’ultima suite, stavolta di 19 minuti, dove succede di tutto. Un trillo di vibrafono raggiunto da una melodia fischiata, un disordinato coro a canone, una batteria esplosiva che rulla sui piatti, affiancata da rumori di animali, un riff ipnotico di basso che porta ad un vero e proprio trip, e parole comprensibili fonicamente, ma difficilmente afferrabili nel loro significato, se ci si lascia prendere dalla musica e dalla vocalità stessa. Saint Sadrill è una cosa spiazzante, e forse solo l’ascolto può dare l’idea di cosa si sta scrivendo qui. Di certo è ottimo se si cerca musica che ti tenga sveglio e su di giri. (Gilberto Ongaro)